Un missionario attivo che opera con gli orfani, i malati, i carcerati incarna – senza dubbio – un modo di essere presente.

E un monaco benedettino che vive le sue giornate per intero in monastero, quasi sottraendosi al flusso esterno? E’ missione anche questa?

Sul tema “Frontiera missione: presenza e assenza” si sono confrontati, in un panel del Festival in corso a Milano, suor Gloria Cecilia Narvaez, religiosa francescana di Maria Immacolata, colombiana, missionaria in Mali dove nel 2017 è stata rapita da al-Qaeda rimanendo nelle mani dei suoi aguzzini per quasi cinque anni; e fratel MichaelDavide Semeraro, monaco benedettino dal 1983 e priore del monastero di Novalesa in Valle di Susa.

Due storie di frontiera. Ma a prima vista agli antipodi. Ci sono punti di contatto tra la “presenza” di suor Gloria tra gli ultimi e “l’assenza” di fratel MichaelDavide dentro un monastero?

Entrando nell’esperienza di suor Gloria, scopriamo che anche lei ha vissuto l’assenza: durante i quattro anni e otto mesi di prigionia, si è assentata dalla sua vita, per poi tornare a vivere la “presenza”.

Dall’altra parte, fratel MichaelDavide sembra che abbia scelto l’assenza sottraendosi al flusso della vita quotidiana immersa nel mondo. Ma è davvero così?

La risposta ha ribaltato l’apparenza: entrambi, nella loro “assenza”, fanno e hanno fatto esperienza di vera Presenza.

«Nella mia permanenza forzata nel deserto – ha raccontato suor Gloria al Festival – ogni giorno ho fatto esperienza dell’amore di Dio, della pazienza, della speranza. Ho sentito il manto di Maria appoggiato su di me, sempre. La Parola di Dio l’avevo nel mio cuore e ogni giorno riflettevo e mi ripetevo: “Non temere perché il Signore è con te”». Parole di suor Gloria, che testimoniano una Presenza piena, anche nel periodo in cui la vita le è stata sottratta. «Sono stati quasi cinque anni di grande sofferenza, con serpenti e formiche velenose di notte e maltrattamenti fisici di giorno, ma questo tempo si è trasformato in scuola di preghiera, in vera e propria grazia», ha confessato, sottolineando come la missione di Karangasso, di cui lei stessa era responsabile, si sia fortificata in quegli anni. E come la sua vita si sia trasformata in un Magnificat.

Anche nella vita monastica «c’è un Dio che è presente sempre – ha sottolineato fratel MichaelDavid – nonostante il nostro non voler influire sul mondo, nonostante il nostro “assentarsi”. San Benedetto dice che nel momento della professione perpetua il monaco non è più padrone del suo corpo. Ma questo è vero per tutti: la vita viene prima di noi e in qualche modo va oltre noi. Lo specifico della nostra umanità è credere che la vita è un dono che dobbiamo restituire ogni giorno».

E non è quello che fa anche un missionario attivo con la sua “presenza nel mondo”? Suor Gloria (e non solo lei) lo testimonia nei fatti.

Vivendo in monastero si diventa «esperti di umanità e non perché si diventa saputelli, ma perché si impara dalle cose che si patiscono». E la stessa descrizione non può essere fatta anche per chi lascia tutto, parte per la missione e si immerge nella vita quotidiana dei fratelli più deboli e poveri, con le loro sofferenze quotidiane?

«L’umanità chiede alla Chiesa uno sguardo più formato alla scuola del Vangelo» ha concluso il monaco benedettino. Uomini e donne di Chiesa «prima di prescrivere sono chiamati ad ammirare, prima di chiedere sono chiamati a migliorare. La Chiesa non può sottrarsi al dovere di guardare il mondo e le persone come fa Gesù».

Senza questa attenzione, non c’è presenza, che è incontro con Dio e incontro con il prossimo. Senza questa tensione non c’è missione.