«Ci sentiamo responsabili di questo esercito di poveri, vittime di guerre e fame, di deserti e torture. È la storia sofferta di uomini e donne e bambini che – mentre impedisce di chiudere frontiere e alzare barriere – ci chiede di osare la solidarietà, la giustizia e la pace».

È un passaggio eloquente della nota sulla questione migratoria, diffusa ieri dalla presidenza della Conferenza Episcopale Italiana (Cei).

Il tema è scottante ed esige una lettura di quanto sta avvenendo sul palcoscenico della Storia, alla luce dei valori del Regno. Come spiegava con lucidità e schiettezza lo scrittore nigeriano Chinua Achebe, “Anche il leone deve avere chi racconta la sua storia. Non solo il cacciatore”.

Un detto ancestrale che evoca l’istanza di guardare all’Africa – da cui oggi proviene il flusso più consistente di migranti verso l’ Europa – senza pregiudizi e stereotipi, andando al di là di una visione paternalistica, ammantata di carità pelosa.

Sì perché l’Africa non è povera, ma semmai impoverita, non reclama beneficenza da parte dei Grandi della Terra, ma invoca giustizia, chiede solidarietà e non predazioni, pace e non belligeranza perpetua.

Qui nessuno intende misconoscere il pesante fardello di una cronica instabilità africana fatta di guerre, regimi dittatoriali, carestie e pandemie. Si fa presto, però, a denunciare il deficit di virtuosismo da parte delle leadership africane, dimenticando che spesso le oligarchie locali sono al soldo di potentati stranieri (cinesi, americani, europei…).

Col risultato che in Africa si acuiscono a dismisura fenomeni come l’esclusione sociale o il land grabbing (il cosiddetto accaparramento dei terreni da parte di imprese straniere), unitamente allo sfruttamento delle materie prime. E cosa dire delle regole del commercio?

Basti pensare agli Epa (Economic Partnership Agreements) con cui l’Unione Europea (Ue) ha imposto ai Paesi Acp (Africa, Caraibi e Pacifico) di eliminare tutte le barriere all’entrata su merci, prodotti agricoli e servizi provenienti dall’Ue, mettendo fine alla non reciprocità sancita dalla Convenzione di Lomè.

Libero scambio, quindi, su tutti i fronti, con l’illusoria convinzione che la riduzione delle barriere commerciali incentivi la crescita economica dei Paesi poveri.

Purtroppo il risultato è di segno contrario: con il ribasso progressivo delle tariffe doganali all’importazione dei prodotti europei, si sta generando un danno irreversibile alle già precarie economie nazionali africane. A ciò si aggiunga la finanziarizzazione del debito dei paesi da cui provengono i migranti, i cui interessi sono legati alle speculazioni di borsa sulle principali piazze finanziarie mondiali.

“Come Pastori della Chiesa – si legge sempre nella nota episcopale – non pretendiamo di offrire soluzioni a buon mercato”.

Il che in sostanza significa che la Chiesa non intende interferire proponendo scelte politiche specifiche sulla mobilità umana, ma ha il sacrosanto compito di contrastare con coraggio e determinazione quegli “atteggiamenti aggressivi” e “parole sprezzanti” che giorno dopo giorno alimentano in Italia “un clima di diffidenza e disprezzo, di rabbia e rifiuto”.

D’altronde, l’antropologia cristiana dice con chiarezza che la persona umana è creata ad immagine e somiglianza di Dio, senza distinzione di razza, lingua o religione.

Pertanto, considerando la gravità della situazione, in materia di diritti umani sul versante libico, sarebbe peccaminoso chiudere gli occhi di fronte a quell’umanità dolente alla ricerca disperata di salvezza.

Ecco perché la presidenza della Cei guarda “con gratitudine a quanti – accanto e insieme a noi – con la loro disponibilità sono segno di compassione, lungimiranza e coraggio, costruttori di una cultura inclusiva, capace di proteggere, promuovere e integrare”.

I poveri e l’Africa in particolare ci ricordano quello che diceva saggiamente uno dei personaggi generati dall’estro letterario dello scrittore senegalese Cheick Anta Diop a proposito dei rapporti Europa-Africa: “Non abbiamo avuto lo stesso passato, voi e noi, ma avremo necessariamente lo stesso futuro”. Una cultura del destino comune che rappresenta l’unico deterrente contro la globalizzazione dell’indifferenza.