Muaramuze (buongiorno), Amacuru (come stai?), Murakoze (grazie). Poche, semplici parole della lingua kinyarwanda, memorizzate con difficoltà (e non sono nemmeno sicuro di averle scritte correttamente) e un francese scolastico arrugginito. Credenziali non proprio lusinghiere per il mio ingresso in terra ruandese.

Eppure chi l’avrebbe mai detto che proprio questa difficoltà linguistica avrebbe spalancato le porte a una comunicazione fatta di linguaggi dei segni, sguardi curiosi e gioiosi, sorrisi, inseguimenti e fughe giocosi, strette di mano e abbracci? In Ruanda, dove il tempo sembrava rallentare, tutto per me, a partire dalle relazioni, ha riacquistato il gusto della semplicità e ho preso coscienza di quanto, quella che era iniziata come un’esperienza di servizio, si sia invece rivelata per me una grande possibilità di crescita, nonché un’autentica fonte di amore.

Sembra strano pensare che ciò sia avvenuto nella dura realtà di una terra in cui ogni giorno i bambini percorrono chilometri a piedi scalzi per andare a scuola o per attingere l’acqua, in cui la sopravvivenza di molte persone dipende dal duro lavoro nei campi, scandito dall’alternarsi delle stagioni secche e delle piogge, in cui molte piccole abitazioni costruite col fango rappresentano l’unico riparo per le famiglie e, soprattutto, dove lo sconvolgente evento di un genocidio costituisce una ferita non ancora completamente rimarginata. Ma si sa, Dio agisce in modi misteriosi e imprevedibili.

In queste poche righe non è purtroppo possibile raccontare in maniera esaustiva le molteplici e straordinarie esperienze vissute; mi auguro tuttavia che molti giovani possano continuare a cogliere al volo l’opportunità di riempire il proprio cuore vivendo un’esperienza simile.

Concludo rivolgendo un pensiero di gratitudine al Centro Missionario Diocesano, alla simpatica e stimolante compagnia dei miei compagni viaggio, Anna e Marco, nonché alla squisita ospitalità e al premuroso accompagnamento di Ceribelli Consuelo, da dodici anni missionaria in terra ruandese e che, per la sua simpatica esilarante follia, potrei definire la “versione bianca e laica” di Sister Act.

 

Pierluigi, Ruanda