Vista dal sito archeologico della storica cittadella, sembra un gigantesco castello di sabbia, costruito dalle enormi mani di un bambino inverosimile.

I mattoni irregolari che lo compongono sono le migliaia di case che con metodo ricoprono il suolo della capitale giordana.

 

Come su ogni castello che si rispetti signoreggia, in cima a un’asta di oltre 1.100 metri, il vessillo verde, bianco, nero e rosso, della nazione guidata dal re Abd Allah II.

Nonostante assomigli a un castello di sabbia, Amman non è affatto una città fragile: esposta al contagio del collasso siro-iracheno, invasa dai rifugiati e minacciata dai jihadisti, circondata dalle polveriere mediorientali di Israele e del Libano, la capitale del regno hashemita è riuscita fino ad ora a mantenere una certa stabilità interna.

Parafrasando e ribaltando diametralmente la celebre frase dei Promessi Sposi, la Giordania assomiglia a un piccolo coccio di ferro in mezzo a tanti vasi di terracotta.

A partire dal 2010, anno d’inizio degli sconvolgimenti delle Primavere del mondo arabo, la nazione giordana ha reagito alle minacce su più fronti con modalità protettiva; sul piano interno, Re Abdullah ha concesso una moderata apertura nei confronti della società civile e dei partiti politici, consentendo alla Giordania di non cadere nel baratro di una crisi senza fine e alla monarchia di rimanere salda al potere.

Su quello esterno, il rapido assorbimento della crisi interna ha permesso al regno hashemita di concentrarsi sulle ripercussioni dell’implosione ai suoi confini di Siria e Iraq.

Ripercussioni che hanno il volto di migliaia di profughi in fuga dalle guerre: l’ultimo censimento nazionale ha rivelato che dei circa 9,5 milioni di abitanti – poco meno della Lombardia – circa tre milioni sono stranieri; invece dei restanti 6,5 milioni di giordani, la metà sono palestinesi.

Ed è proprio la Giordania che, a partire dalla metà del Novecento, è stata costretta a misurarsi con flussi costanti di profughi provenienti dai vicini mediorientali; la prima volta nel 1948 con i palestinesi in fuga dal neonato Stato di Israele, ondata che è stata raddoppiata nel 1967 con lo scoppio della Guerra dei Sei Giorni che ha costituito il casus per uno stabile radicamento dei palestinesi in Giordania.

Dopo i palestinesi, è stata la volta degli iracheni piagati dalla prima guerra del Golfo nel 1990 e dall’invasione degli Stati Uniti nel 2003. Poi è venuto il turno dei siriani che costituiscono a oggi il gruppo più numeroso degli immigrati in Giordania: le stime ufficiali parlano di 660.500 profughi ma si ritiene che siano molti di più (circa un milione e 400mila).

Fra questi, tanti, circa 90mila, sono ospitati all’interno del campo di Zaatari situato a circa 10 chilometri dal confine siriano.

Il campo è costituito da un’enorme distesa a perdita d’occhio di container, un mare di lamiere d’argento che brilla senza sforzo alla luce del sole. Migliaia di case prefabbricate tutte uguali, all’interno delle quali vivono famiglie, persone, rese tristemente uguali dal filo rosso delle ingiustizie della guerra.

Il campo, attivo dal 2012, nel corso degli anni della sanguinosa crisi siriana è letteralmente lievitato, fino ad assumere le proporzioni di una vera cittadina dotata di ogni tipo di attività.

La maggior parte dei negozi e delle botteghe si concentrano nella “via dello shopping”, chiamata ironicamente dagli abitanti del luogo gli Champs Elysée; qui è possibile trovare dalla bancarella dei tradizionali felafel fino agli abiti da sposa, finemente lavorati.

I matrimoni, raccontano i cittadini di Zaatari, sono all’ordine del giorno perché nonostante la guerra continui a devastare la Siria, la vita va avanti. Come testimoniano le nascite che si aggirano intorno a 50-80 a settimana.

Come ad esempio, Nadia, nata a giugno in una sala operatoria poco illuminata all’interno di uno dei due ospedali da campo presenti a Zaatari.

All’interno del campo profughi vi sono due cliniche pediatriche: quella dov’è nata Nadia dispone di una sala operatoria e di uno staff medico di 118 persone.

L’altra clinica, sostenuta dalle Nazioni Unite, dispone di 24 posti letto, e un’équipe medica composta da 39 tra ginecologi, pediatri, ostetriche e infermieri. Uno dei maggiori dolori per la madre di Nadia, Marie Noor, 26 anni, è che «i miei genitori non hanno ancora potuto incontrare la loro nipotina… mi sento sola qui, mi manca terribilmente la mia famiglia che è rimasta a Damasco».

«Se circa 90mila siriani hanno trovato ospitalità all’interno del campo di Zaatari, il secondo campo rifugiati più grande al mondo, non bisogna dimenticare che la maggior parte della popolazione siriana in Giordania, l’85%, vive in aree urbane e rurali» racconta Whael Suleiman, direttore di Caritas Giordania.

«Oltre l’80% della totalità dei rifugiati siriani vive al di sotto della soglia di povertà per lo più costretta a degradanti lavori in nero e alla pratica dell’elemosina» continua Suleiman.

Nel corso degli anni massiccia è stata la risposta di Caritas Giordania all’emergenza profughi che, dal 2012, interessa direttamente il Paese di re Abd Allah II.

Un’emergenza che nel tempo la Caritas nazionale giordana ha radicato nel quotidiano attraverso un ricco ventaglio di servizi, in grado di provvedere sia alle esigenze di ogni giorno di centinaia di migliaia di profughi, sia alla popolazione locale giordana più vulnerabile.

In particolare Caritas Giordania si radica nel territorio grazie a 12 centri presenti nei 12 governatorati offrendo servizi nel campo educativo, sanitario (circa 16.500 le persone assistite nel 2016), umanitario, di attività generatrici di reddito e di counseling.

Ma questo basta; è sempre più necessario trovare una risposta concreta e risolutiva in grado di instaurare le condizioni per una pace duratura.

«Ci portiamo addosso 70 anni di guerre e rifugiati» racconta il direttore della Caritas giordana. «Dalla crisi del 1948 ad oggi odio, guerre, morti, inimicizie non si contano più. Così come i soldi. L’opera sociale e l’assistenza ai rifugiati sono diventate un vero e proprio business in Medio Oriente.

Tanti, troppi uomini si sono arricchiti sul dolore generato dalla guerra. E i soldi non hanno risolto il problema. Vorrei che tutti potessero vedere, almeno una volta, il campo di Zaatari. Noi giordani non ci vogliamo più andare, perché è una situazione disumana. Abbiamo solo i soldi per dare un po’ da mangiare, delle medicine, dell’acqua a migliaia di persone che soffrono per il male portato dall’uomo.

Oggi è il momento di lavorare per la pace. È arrivato il momento che la Chiesa cattolica faccia qualcosa. Nel mondo siamo milioni di cristiani cattolici, ed è arrivato il momento che promuoviamo delle azioni concrete per la pace.

E per farlo abbiamo bisogno di voi. La pace non si costruisce da sola, tantomeno grazie ai soldi».

(Pubblicato sul numero di gennaio di Popoli e Missione)