Mons. Eugenio Coter è vescovo del vicariato del Pando, in Bolivia. L’abbiamo incontrato nella sua casa di Riberalta al centro di una regione dove il 90% del territorio è costituito da foresta: con lui e con suor Ziria Catarina Mees, suora brasilana della Divina Provvidenza siamo andati a visitare pezzetti di  foresta dove abbiamo incontrato persone che stanno cambiando il volto del territorio dando speranza per il futuro in un’ottica di sviluppo e sostenibilità.

Mons. Eugenio Coter, già fidei donum italiano, è vescovo in questa regione amazzonica da 5 anni e in questo tempo ha continuato quello che il suo predecessore, l’americano Luis Morgan Casey, aveva messo in piedi: lavorare con i campesinos, con le comunità indigene, impedendo la distruzione di questo immenso patrimonio di biodiversità. Gli impresari e l’agro-business  stanno riducendo infatti la foresta al ritmo di 1 ettaro ogni minuto a suon di ruspe e motoseghe. Cifra pazzesca, vuol dire che in 70 anni tutto sarà ridotto ad un’immensa distesa di pampa arida, nemmeno adatta all’allevamento. “Dimostrami che un ettaro di foresta in piedi vale più di un ettaro di soia o di allevamento del bestiame” dice l’agro-business alla comunità campesina. La risposta dal punto di vista economico è scontata, ma dal punto di vista etico e di futuro sostenibile è inaccettabile, afferma mons Coter. 

Ci porta a Guayaramerin, confine con il Brasile, dove la Caritas del vicariato da 5 anni porta avanti un progetto  agro-forestale. Qui, un tempo foresta, ora c’è un immenso pascolo: per recuperala e per dare futuro alle comunità di campesinos la Caritas sta agendo su due fronti: la valorizzazione del pascolo e la riforestazione. Per garantire la sicurezza alimentare della comunità si è puntato su vacche da latte e non da carne: questo permette alle famiglie di sostenersi con la vendita del latte e della carne della mucca, una volta che l’animale è alla fine del ciclo produttivo. In 5 anni le mucche da 7 sono diventate 30, per un valore accumulato di due mucche per famiglia della comunità. Il lavoro si fa insieme: le 15 famiglie si alternano nell’allevamento, nella mungitura, nella custodia. Accanto a questo c’è il lavoro di riforestazione, complesso, perché la foresta deve dare guadagno. Quindi non solo piante da legname, ma anche castagna (che qui si chiama almendra), cupuaçù, açai, banane, agrumi. Resta il problema della siccità perché  la deforestazione porta ad un abbassamento clamoroso del livello di umidità, con conseguenze pesanti sulle precipitazioni. Con il risultato che la paglia diventa combustibile perfetto per il divampare degli incendi, sospinti dai venti che arrivano da sud e che non trovano più nessuna barriera naturale. Il problema degli incendi, alcuni causati dagli agricoltori per pulire i terreni e che scappano di mano, alcuni provocati dall’ incuria della gente di passaggio, è enorme oggi nell’Amazzonia boliviana. 

La scansione produttiva per recuperare la foresta in maniera economica, permettendo quindi alle comunità di rimanere nella propria terra, è molto precisa. Si inizia con le piante di banano e agrumi che in pochi mesi arrivano a dare frutto. Tra l’altro queste piante hanno anche un’azione fondamentale, quella di ombreggiare il terreno facendo morire l’erba e abbassando la siccità del terreno. In questa prima fase in cui il banano sostiene la famiglia, inizia la produzione del cupuaçù, ottimo frutto per succhi e bevande. Poi è la volta dell’açai, altro ottimo frutto, e mentre tutti questi danno reddito cresce la castagna, l’almendra, vera e propria ricchezza della regione. Il 70% dell’economia del Pando boliviano è sostenuta dall’almendra che arriva nei nostri supermercati con il nome di castagna del Parà. Nel frattempo le piante da legname della foresta crescono, come la mara (il mogano) il cedro, ma ci vogliono 15-20 anni  per portarle alla commercializzazione. Con queste cresce anche la palma reale, che ha il compito di portare l’acqua in superficie creando microclimi con l’umidità necessaria alla maturazione dei frutti. In 4 anni di programma agro- forestale, dice Vincente Vos, biologo del programma di sviluppo sociale SIPCA dei gesuiti, la valorizzazione della parcella di terreno assegnata alla comunità indigena o campesina diventa molto interessante. “Se una parcella di foresta distrutta dall’agro-business per la soia o per l’allevamento dura qualche anno e poi si trasforma in pampa arida buona solo come combustibile per gli incendi, inquinata dalle tonnellate di veleni usati per ottenere produzioni importanti, noi con i nostri metodi preserviamo la foresta, la utilizziamo economicamente in modo tale che una comunità possa vivere e svilupparsi, e soprattutto non senta il desiderio di lasciare la foresta per trasferirsi nelle periferie delle grandi città”. Il problema rimane la commercializzazione dei prodotti: a questo sta rispondendo la cooperativa IPHAE, in collaborazione con Madre Tierra, una impresa sociale che ha come soci gli stessi produttori di cocuaçu e açai. Fortunato Angola e Cristiano Noko,  presidente e amministratore e ci spiegano come funziona: prendono il prodotto dai contadini che sono soci di queste realtà, lo lavorano, lo conservano e lo immettono nella distribuzione fatta da centinaia di piccoli punti vendita nei quartieri delle città del Vicariato. Ma il sogno è arrivare lontano, a Santa Cruz o a La Paz: ci sono 700 km da superare con strade difficili e soprattutto con camion adatti alla refrigerazione per conservare il prodotto. Il sogno deve ancora diventare realtà. Papa Francesco a Puerto Maldonado nel gennaio 2018, continua mons. Coter, “ha ricordato che è tempo di superare la visione dell’Amazzonia come dispensa da cui attingere per i favori di qualcuno. Quando la pensiamo in questo modo la distruggiamo e distruggiamo la vita delle persone che ci abitano. Dobbiamo imparare a pensare l’Amazzonia con una scala di valori che nascono alla luce del vangelo e che non pone l’economia al primo posto ma lo star bene, il “ben viver”. Ovvero una vita di relazioni che aiutano a superare i conflitti delle terre e costruiscono giustizia sociale, che offrono opportunità di vita. Poi sicuramente dobbiamo imparare a contemplare la bellezza di questa creazione, ringraziare il Signore di questi doni e metterli a disposizione di chi vuole venire a conoscere l’Amazzonia, a fare esperienza non solo di natura ma di vita inserita nella natura,  non tanto in un contesto di poesia ma di vera maturità umana che cerca l’equilibrio dentro tutto questo. Ricordava il Papa: facciamo uno scandalo quando sparisce una specie animale, ma se spariscono interi gruppi etnici nessuno ne parla”

Paolo Annechini 

 

Se non ci fossero i laici…

Quella in Bolivia, nel vicariato del Pando, è una chiesa indubbiamente costruita sull’impegno dei laici! Pensate ad una pianura con una popolazione di 250 mila abitanti concentrata in tre città e il resto sparsa in comunità rurali fatte alcune da poche famiglie, altre da gruppi più grandi organizzati. Una zona piena di fiumi, che ha piste di comunicazione più che strade, dove nonostante progresso e sviluppo sono ancora impercorribili per due-tre mesi all’anno; un vicariato che è territorio di missione in cui di fatto le parrocchie sono 6 più due “quasi parrocchie” con 17 sacerdoti tra religiosi e diocesani. La domenica è la celebrazione della Parola che anima le comunità: sono 200 celebrazioni della Parola ogni domenica nel Vicariato, un gran numero di ministri della comunione che collaborano soprattutto nelle zone di periferia urbana e nelle comunità intorno alle tre cittadine che lo compongono. È una pastorale che richiede di muoversi, andare, di stare vicini a queste persone anche se disperse nella foresta. In una comunità mi dicevano: “Non importa se non ha niente di materiale da portarci, venga a trovarci perché comunque è il segno che per qualcuno contiamo e siamo importanti”. È una pastorale che fa sentire che c’è una Chiesa che accompagna il sogno di costruire comunità che crescono e che si organizzano attorno alla Parola e all’eucaristia. 

Penso alle comunità dove c’è il catechista e il primo servizio che la comunità offre è il servizio ai sacramenti dell’iniziazione cristiana. Poi ci sono catechisti che fanno anche da preparazione al matrimonio. Il catechista prende forza dal leader della comunità,  ma il leader non fa il catechista, è l’anima della comunità, organizza, dinamizza, coordina le celebrazione e con il catechista le mette in atto. Solitamente, a questo punto, mettono insieme un tetto, uno spazio comune (interessante vedere come non celebrino nelle case private dicendo che il posto della celebrazione deve essere della comunità quindi la casa di tutti!): poi c’è chi si incarica della celebrazione, della musica, ci sono giovani e adulti che cantano e suonano. 

Le sfide non mancano: una signora, mediamente formata da un pastore evangelico che da tre mesi era arrivano nella comunità, mi raccontava che gli evangelici si riunivano a celebrare la Parola. “È bello – mi diceva con semplicità -, anche noi andiamo perché così almeno qualcuno ci da la Parola ma a noi non basta, noi siamo cattolici, noi abbiamo anche il pane dell’eucaristia. Quando ci manda qualcuno che ci da l’eucaristia?” Ecco il sogno di queste comunità: poter avere qualcuno che li accompagni anche ministerialmente. Non c’è solo il tema dell’eucarestia, certamente  fondamentale, ma anche quello di accompagnare i malati, di essere vicino a chi muore, il tema della confessione, di dare il sacramento agli infermi… tutte queste sfide le abbiamo davanti. Nello stesso tempo non è una comunità chiusa in se stessa: in tutte c’è l’apertura di una cassa comune e l’attenzione di dare qualcosa alle famiglie povere. Sono comunità cristiane in cui la fede poi diventa solidarietà, azione, impegno. Questo è quello che stiamo vivendo. A noi chiedono ministeri che li aiutino a sentire che non è una comunità spontanea, nata dal basso, ma una comunità che nascendo dal basso incontra una Chiesa che è frutto dell’incarnazione, da cui riceve strumenti perché questo crescere sia nella comunione con Dio”.

mons. Eugenio Coter 

vescovo del Pando.