Padre Vincenzo Bordo è un missionario degli Oblati di Maria Immacolata che opera in Corea del Sud da moltissimi anni. I lettori di “Popoli e Missione” lo conoscono bene, perché spesso la rubrica ‘Posta dei missionari’ ospita le sue lettere appassionate e originali. E’ talmente inserito nella società coreana che da poco più di un anno è stato onorato della cittadinanza del Paese asiatico: nel numero di gennaio dello scorso anno ci raccontò della cerimonia di consegna del passaporto, del suo giuramento di fedeltà alla Repubblica, del suo nuovo nome “Kim Ha Jong” sui documenti, delle dolci lacrime di felicità che scesero dai suoi occhi.

Ebbene, oggi – giorno di apertura delle Olimpiadi invernali – è uno dei tedofori che il Comitato Olimpico di Corea ha scelto per portare la fiaccola.

Riportiamo di seguito quasi integralmente la lettera che egli stesso ha inviato ai suoi contatti a seguito della sorpresa ricevuta: da un fatto singolare, come può essere un ‘missionario tedoforo’, nasce una intensa riflessione sul senso della cultura dell’incontro, dell’integrazione, del valore di una società multietnica.

 “Qui e’ il Comitato Olimpico della Corea che parla. Lei e’ il signor Kim Ha Jong?”. Mi dice la voce all’altro capo del telefono. Penso subito: “Si sono accorti delle mie doti ciclistiche e mi convocano a far parte del team nazionale”. Questo pensiero mi passa per la mente come una saetta, poi una seconda riflessione: “Ma ai Giochi Olimpici invernali non c’e’ il ciclismo. Allora?”. Mi concentro ed ascolto con più attenzione chi mi sta parlando. Che si tratti di uno stupido scherzo?. “La chiamiamo -continua il mio interlocutore – perché desideriamo che sia uno dei portatori della torcia olimpica, un ‘tedoforo’. “Mi scusi – replico – ci deve essere un errore. Io sono Vincenzo Bordo e sono un italiano”. “Sì, lo sappiamo”. “Ma io sono uno straniero”, continuo. “Sì, è proprio per questo che la convochiamo. Lo spirito dei giochi olimpici è uno spirito di fratellanza universale e di accoglienza e con questo gesto vorremmo dire ai nostri connazionali che la Corea è un solo Paese e che tutti quelli che vivono e lavorano qui sono parte di questo popolo, senza discriminazioni o pregiudizi e fanno parte di questa stupenda storia che stiamo costruendo insieme”.

Con titubanza e gioia accetto la proposta. Nello stesso tempo mi sento onorato di vivere e lavorare in una nazione che è capace di esprimere questi valori di accoglienza e di attenzione nei confronti degli immigrati.

Sì, anche io sono uno straniero. Oggi parlare di immigrati non è facile perché questa parola è troppo spesso associata a degrado sociale, violenze, stupri, rapine, furti e tanto altro di negativo. Ho vissuto anch’ io questa realtà difficile.

Ricordo lo sgomento ed i pregiudizi che ho incontrato all’inizio della mia vita in Corea. C’era incomprensione perché non sapevamo nulla l’uno dell’altro: io non comprendevo e non parlavo la lingua, non conoscevo le abitudini dei coreani; loro non conoscevano la mia cultura, le mie origini, i motivi per cui ero giunto in un Paese tanto lontano dal mio. Sentivo la loro diffidenza, la loro paura, tanto che i bambini, stupiti e impauriti, mi inseguivano gridando: “Straniero, straniero ‘go home’, torna a casa”.

Poi ho iniziato a gestire un centro per i poveri e per le persone di strada. Allora i funzionari del Comune mi accusarono di infangare il buon nome della città perché a causa del nostro Centro tanti derelitti, abbandonati, straccioni venivano, anche da fuori, per chiedere aiuto e avere un pasto caldo che trovavano solo da noi.

Lentamente il nostro centro è divenuto sempre più grande: 550 pasti distribuiti ogni giorno, un dormitorio per i senzatetto, un piccolo laboratorio artigianale per i disoccupati, quattro case famiglia per i ragazzi di strada. Per gestire tutte queste attività c’era l’impegno costante di 600 volontari, 5mila benefattori, 40 giovani dipendenti – assistenti sociali, educatori, counselors, impiegati amministrativi – regolarmente assunti. Era evidente a tutti che la nostra associazione rispondeva a bisogni reali delle persone e a quel punto nessuno poteva più negare l’apporto positivo che donava alla società coreana.

Comprendo bene che quando arriva uno straniero inizialmente si prova una istintiva paura e un naturale sgomento perché questa persona è diversa da noi, parla una lingua a noi incomprensibile, mangia un cibo dagli odori nauseabondi e prega un Dio che non conosciamo.

Ma l’immigrato non è una maledizione o un cancro della società, ma una opportunità, un arricchimento, una sfida. E’ un uomo, una donna che lascia nel suo Paese d’origine tutte le sue certezze per migliorare la propria vita in un’altra terra. E studiando attentamente la storia dell’Europa e dell’Italia in particolare ci si rende conto che è una storia infinita di immigrati, di rifugiati, di profughi, di esuli. Questi scambi, questi spostamenti di persone da un Paese all’altro hanno portato alla ricchezza materiale e culturale del nostro continente. E allora perché chiuderci a riccio, alzare muri, mettere la testa sotto la sabbia?

Siamo in un momento stupendo della nostra storia. Un periodo di sfide inaudite e di opportunità favolose, spetta a noi aprire le nostre porte e mettere a frutto queste nuove opportunità che la storia ci offre. Siamo all’inizio di una nuova e meravigliosa alba che pur avendo ancora dei momenti bui, come è naturale per ogni alba che inizia, porta con sé la bellezza infinita e la certezza che lo splendente sole riscalderà e illuminerà di nuovo la nostra gioiosa umanità. Non chiudiamoci nella comprensibile paura… ma apriamoci al nuovo, al bello, alla sfida fiduciosa e coraggiosa di un futuro da inventare insieme a chi arriva nel nostro Paese. Creiamo insieme una ‘cultura dell’incontro’!

Padre Kim Ha Jong Vincenzo Bordo

Seul (Corea del Sud)