Prima di partire per la missione in Etiopia ero una ragazza con l’aspirazione, fin da quando era bambina, di diventare medico e di poter partire per l’Africa. Il mio sogno purtroppo si è scontrato con la durezza del numero chiuso. Ma se prima di partire per l’Africa vedevo nel mancato superamento del test la fine del mondo, del mio mondo, adesso posso dire di avere sviluppato un diverso punto di vista sulle cose. I problemi sono altri e riuscirò a trovare la mia strada per aiutare l’altro.

Il mio senso di missionarietà parte da lontano: sono cresciuta con i racconti di mamma e dei suoi sei anni trascorsi come missionaria laica in Brasile. Ora le persone che incontro mi dicono: “Sei uguale a mamma!”, riempiendomi il cuore di orgoglio.

Sono partita la scorsa estate insieme a tre amiche per Adaba, in Etiopia. Una città che conta 40 mila abitanti, di cui il 99% professano la fede musulmana. È un’esperienza ancora molto fresca, incisa nella mia memoria. Ho prestato servizio presso una casa-famiglia etiope, decisa a sostenere la missione in fasce di Don Peppe. Anche a Segni vivo in una casa-famiglia: ci rifletto soltanto ora, ma c’è un grande filo rosso che ci unisce, tutti.

La giornata iniziava la mattina con la messa delle 7.00, nonostante già alle 6.30 capitava che ci fossero bambini e ragazzi ad aspettarci davanti all’ingresso di casa con il vangelo in mano, smaniosi per la cerimonia che stava per cominciare.

È bello vedere come i ragazzi di Adaba vivono la messa: ci mettono tutto, soprattutto nei canti. Mi ha colpito il fatto che in Africa vivano la fede in modo quotidiano, che ogni aspetto della vita sia legato alla religione. I ragazzi hanno addirittura imparato a cantare l’Emmanuel, segno che ci siamo davvero contaminati gli uni gli altri.

Dalla fine della celebrazione fino alle 15.30 diventavamo le teachers, insegnanti di lingua inglese in una classe che spaziava da bambini di 10 a ragazzi di 20 anni, in cui studiavano insieme ragazzi cattolici e musulmani. È stato incredibile constatare l’entusiasmo da parte dei ragazzi di partecipare ad un corso di lingua nel periodo estivo, che sarebbe per loro invece stato di vacanza. Proprio come succederebbe da noi! Alla fine del corso abbiamo organizzato uno spettacolino in lingua inglese e premiato i ragazzi più talentuosi. Una volta a settimana invece, i ragazzi della casa-famiglia andavano ad Herero, un paese vicino, dove loro stessi organizzavano attività legate alla missionarietà: per aiutare l’Africa con l’Africa.

Un episodio mi ha colpito particolarmente: la sera dell’ultima cena, che è stata una batosta per tutte noi. Premetto che non abbiamo mai mangiato carne nel corso di tutta la missione. L’ultima sera invece la casa-famiglia ci ha preparato piatti colmi di riso e bocconi di pecora, una gioia per gli occhi! Ma presto ci siamo incupite, rendendoci conto che i piatti con la carne erano destinati soltanto a noi, bianchi. Don Peppe ci ha detto di non preoccuparci, che da loro funziona così. Ma ammetto che, di nascosto, ho smembrato i pezzetti di carne per darli ai miei vicini. Non avrò rispettato le tradizioni, ma ho sentito che andava fatto. Mi ha stupito la reazione di un ragazzo, che ha declinato con dolcezza il boccone che gli avevo passato in gran segreto, dicendomi: “Gesù non lo avrebbe accettato”.

Mi porto a casa tre parole.

Innanzitutto, galatoma, che significa grazie. È la prima parola che Don Peppe ci ha insegnato e la parola tra tutte più detta e più sentita. Poi mi viene in mente la parola caffè, che in Etiopia è legata ad un rito ben specifico, aggregante per la comunità del villaggio. In Africa tutte le attività sono condotte con un altro senso del tempo. In questo caso, emblematico è il rituale del caffè, che si protrae per minimo 2 ore, tempo in cui gli africani ci hanno insegnato a vivere l’Altro. Infine, direi la parola sguardi.

Ho visto sguardi curiosi, quasi di chi vedesse un bianco per la prima volta: occhi che ringraziano e ridono. Ho visto sguardi di sfida, soprattutto dei più grandi: mi sono sentita nuda e vulnerabile. Mi sono sentita una straniera.

In fin dei conti, ho sentito più di avere ricevuto, che non di avere dato.

 

Martina, Etiopia (testo raccolto da Elsa)