Ancora una domenica di sangue e morte nella Repubblica Democratica del Congo.

Non si ferma la repressione, da parte di polizia e forze dell’ordine, dei tanti cattolici che manifestano pacificamente contro la Presidenza di Joseph Kabila, deciso a non mollare il potere.

Dopo la carneficina del 31 dicembre scorso, ieri, di nuovo, sei persone sono state uccise e una cinquantina rimaste ferite, nel corso di varie manifestazioni all’uscita della messa domenicale sia a Kinshasa che a Goma, Bukavu e Kisangani.

Una ragazza di sedici anni è stata la prima vittima, colpita a morte mentre usciva da una chiesa nella capitale. 

Papa Francesco, da Lima, ieri ha parlato di «notizie molto inquietanti» giunte dal Congo.

Ed in effetti questo appare sempre di più come un confronto tra il collettivo di laici cattolici congolesi, stanchi di soprusi, e il presidente uscente Joseph Kabila, da tempo in scadenza, che non tollera la presa di posizione della Chiesa cattolica locale.

La richiesta della gente è quella di rispettare il primo paragrafo dell’articolo 70 della Costituzione, che recita: «il Presidente della Repubblica è eletto per un mandato di cinque anni rinnovabile una sola volta».

Eppure, la reazione delle cancellerie europee di fronte a questa vera e propria carneficina è praticamente inesistente o molto debole.

Stando a fonti diplomatiche accreditate a Bruxelles, i governi di Francia e Spagna avrebbero impedito una presa di posizione esplicita da parte dell’Unione Europea.

È evidente che, dietro le quinte, si celano interessi economici strategici. Stiamo parlando di un Paese che possiede il 34% delle riserve mondiali di cobalto, il 10% di quelle di oro, oltre il 50% di rutilio, per non parlare degli ingenti depositi di diamanti, uranio, cassiterite, petrolio e gas naturale.

Inoltre, sul territorio congolese si trova circa il 70% delle risorse idriche dell’Africa e dalla sua foresta pluviale si ricava legname d’ogni genere esportato in tutto il mondo.

Negli ultimi 20 anni, vasti settori geografici del Paese, soprattutto sul versante orientale, sono stati teatro di scontri che hanno coinvolto una galassia di gruppi ribelli, molti dei quali finanziati e sostenuti dai Paesi limitrofi (Uganda e Rwanda), coinvolti nell’estrazione illegale delle ricchezze del sottosuolo.

Secondo autorevoli fonti della società civile, la svolta sarà possibile nella misura in cui vi sarà maggiore coerenza da parte della comunità internazionale, Europa in primis.

Infatti, dopo l’elezione di Emmanuel Macron alla presidenza francese, Parigi e Kinshasa hanno stretto fitte relazioni diplomatiche. Non a caso, lo scorso giugno, hanno visitato l’ex Zaire due personaggi di spicco: Franck Paris, consigliere dell’Eliseo per l’Africa, e Rémi Maréchaux, direttore del Dipartimento Africa del Ministero degli esteri francese.

Questi signori sono paladini degli interessi più svariati che vanno, ad esempio, dalle attività di Bolloré Africa Logistics (creata per consolidare le infrastrutture e le attività logistiche del Gruppo Bolloré in tutto il continente africano e che mira alla concessione del corridoio ferroviario e stradale Matadi-Kinshasa), a quelle della compagnia petrolifera Total alla frontiera con l’Uganda.

E cosa dire di Madrid che è preoccupata di tutelare gli affari della Actividades de Construcciones y Servicios, alla testa di un consorzio per la costruzione della grande diga di Inga?

La posizione di Francia e Spagna è certamente condivisa anche da altre potenze straniere, come il governo cinese che è tradizionalmente allergico all’agenda dei diritti umani, soprattutto quando si tratta di affari.

Le Nazioni Unite, per bocca del Segretario generale Antonio Guterres, hanno sollecitato il governo congolese a «rispettare i diritti del popolo congolese alla libertà di espressione e alla pacifica manifestazione».

E anche il governo belga ha deplorato «la brutale repressione» precisando un aspetto molto importante che in questo caso fa onore all’ex potenza coloniale: «La responsabilità è di chi non ha rispettato l’accordo di San Silvestro 2016, secondo il quale le elezioni si sarebbero dovute svolgere entro il 2017». A questo proposito è bene rammentare che fu proprio la gerarchia cattolica locale a svolgere quel negoziato il cui risultato non ha poi trovato un felice riscontro nelle decisioni di Kabila che è sempre più paladino degli interessi nepotistici e cleptocratici della sua oligarchia.

«Non rimane che la voce della Chiesa, in particolare quella dell’arcivescovo di Kinshasa, il cardinal Laurent Monsengwo», ha commentato padre Eliseo Tacchella, missionario comboniano e profondo conoscitore della situazione congolese.

Il porporato ha infatti usato parole inequivocabili e molto dure dopo quel 31 dicembre, definendo “mediocre” l’attuale classe politica e “barbari” gli uomini in uniforme che hanno perpetrato le violenze di fine anno. «È tempo per i mediocri di andarsene», ha detto in un comunicato, rilanciato dalla stampa internazionale, lo scorso 2 gennaio.

L’arcivescovo di Kinshasa ha condannato pubblicamente le violenze dei militari al soldo di Kabila, in particolare «il fatto di aver impedito ai fedeli cristiani di entrare in chiesa per partecipare alla celebrazione eucaristica nelle diverse parrocchie di Kinshasa – come si legge nel comunicato – il furto di soldi, di cellulari, la ricerca sistematica delle persone e dei loro beni all’interno della chiesa e per le strade, l’ingresso dei militari, le uccisioni, l’uso delle armi contro i cristiani che avevano in mano bibbie, crocifissi e statue della Vergine».

Una versione estesa di questo articolo è pubblicata sul numero in uscita a febbraio di Popoli e Missione.