Lettera Enciclica di Giovanni XXIII Princeps pastorum

 

LETTERA ENCICLICA PRINCEPS PASTORUM DEL SOMMO PONTEFICE GIOVANNI PP. XXIII AI VENERABILI FRATELLI PATRIARCHI  PRIMATI ARCIVESCOVI VESCOVI  E AGLI ALTRI ORDINARI LOCALI  CHE SONO IN PACE E COMUNIONE  CON LA SEDE APOSTOLICA, SULLE MISSIONI CATTOLICHE (1)

 

Fin da quando, rispondendo con consapevole umiltà all’invito d’amore del  «Principe dei pastori» (1Pt 5,4), ma fiduciosi nel suo potentissimo aiuto,  abbiamo assunto il governo e la custodia degli «agnelli» e delle  «pecorelle» del gregge di Dio (Gv 21,15-17) sparso su tutta la terra,  sempre fu presente al Nostro animo «il problema missionario in tutta la  sua vastità, bellezza e importanza».(2) Non abbiamo perciò mai cessato di  rivolgere ad esso le Nostre più vive sollecitudini. E nell’omelia del  primo anniversario della Nostra incoronazione, abbiamo voluto ascrivere  tra i giorni più fausti del Nostro pontificato l’11 ottobre scorso, quando  quattrocento e più missionari convennero nella sacrosanta Basilica  Vaticana per ricevere dalle Nostre mani il crocifisso, prima di spargersi  in tutto il mondo a servizio dell’evangelo.

 

In questo campo la divina Provvidenza, nei suoi adorabili e amorosi  disegni, ha voluto ben presto indirizzare il Nostro ministero sacerdotale.  Infatti, all’indomani della prima guerra mondiale, il Nostro predecessore  Benedetto XV di v.m. volle chiamarCi dalla Nostra diocesi nativa a Roma,  affinché Ci dedicassimo all’«Opera della propagazione della fede», cui  attendemmo durante quattro felicissimi anni della Nostra vita sacerdotale.  Ed è ancora vivo nella Nostra mente il ricordo di quella memoranda  pentecoste dell’anno 1922, allorché Ci fu dato di partecipare con profonda  gioia, qui in Roma, alla celebrazione del terzo centenario della  fondazione della Sacra Congregazione «de Propaganda Fide», alla quale è  appunto affidato il compito di far rifulgere la verità e la grazia  dell’evangelo fino agli estremi confini della terra.

 

In quegli anni, anche il Nostro predecessore di v.m. Pio XI Ci confortò  con la sua parola e col suo esempio nell’apostolato missionario, e dalle  sue labbra apprendemmo, nell’imminenza del conclave nel quale lo Spirito  Santo lo avrebbe designato a successore di Pietro, che «niente di più  grandioso poteva attendersi da un vicario di Cristo, qualunque fosse stato  l’eletto, di quanto è contenuto in questo duplice ideale: irradiazione  straordinaria della dottrina evangelica sul mondo e spirito di  pacificazione».(3) Con la mente piena di questi e altri soavi ricordi e consci dei gravi  doveri che incombono al pastore supremo del gregge di Dio, desideriamo,  venerabili fratelli, prendere occasione dal 40° anniversario della  memorabile lettera apostolica Maximum illud,(4) con la quale il Nostro  venerato predecessore Benedetto XV dava nuovo e decisivo impulso  all’azione missionaria nella chiesa, per intrattenervi sulle necessità e  le speranze della dilatazione del regno di Dio in quella considerevole  parte del mondo, dove si svolge il prezioso e faticoso lavoro dei  missionari, affinché sorgano nuove comunità cristiane e apportino salutari  frutti.

 

Su questo argomento anche i Nostri predecessori Pio XI e Pio XII di v.m.  hanno impartito opportune norme ed esortazioni per mezzo di encicliche(5)  che Noi stessi abbiamo voluto «confermare con l’autorità Nostra e con pari  carità» nella Nostra prima enciclica Ad Petri cathedram.(6) Ma non si farà  certamente mai abbastanza per portare a compimento il desiderio del divin  Redentore, affinché tutte le pecorelle facciano parte di un solo gregge  sotto la guida di unico pastore (Gv 10,16).

 

Nel rivolgere la Nostra particolare attenzione ai soprannaturali interessi  della chiesa nelle terre di missione, ai Nostri occhi si offrono regioni  rigogliose di messi, regioni nelle quali il lavoro degli operai della  vigna di Dio è particolarmente arduo, e regioni ancora dove la violenza  della persecuzione e regimi ostili al nome di Dio e di Cristo tentano di  soffocare il seme della parola del Signore (Mt 13,19). Ma dovunque è  grande il bisogno delle anime, e da ogni parte Ci giunge l’invocazione:  «Aiutaci» (At 16,9). In tutte queste zone, perciò, che sono state  fecondate dal sangue e dal sudore apostolico di eroici araldi  dell’evangelo provenienti «da tutte le nazioni che sono sotto il cielo»  (At 2,5), e dove ora germinano come fioritura e fruttificazione di grazia  apostoli nativi, desideriamo far giungere la Nostra affettuosa parola di  lode e di incoraggiamento, e insieme anche di ammaestramento, alimentata  da una grande speranza che non teme di essere confusa, perché è fondata  sulla infallibile promessa del divino Maestro: «Ecco, io sono con voi per  tutti i giorni sino alla consumazione dei secoli» (Mt 28,20); «Abbiate  fiducia; io ho vinto il mondo» (Gv 16,33).

 

I All’indomani del primo conflitto mondiale, che a tanta parte dell’umanità  aveva procurato lutti, devastazioni e sconforti, l’epistola apostolica  Maximum illud di Benedetto XV (7) risuonò come un grido di spirituale  riscossa per le nuove, pacifiche conquiste del regno di Dio: il solo che  possa assicurare a tutti gli uomini figli del Padre celeste una pace  duratura e una prosperità vera. Da allora, in un attivissimo e  fecondissimo quarantennio di attività missionaria, un fatto della più  grande importanza è venuto ad arricchire i già felici progressi delle  missioni: lo sviluppo della gerarchia e del clero locale.

 

Conformemente al «fine ultimo» del lavoro missionario, «che è quello di  costituire in modo stabile la chiesa presso gli altri popoli e di  affidarla ad una gerarchia propria scelta fra i cristiani del luogo»,(8)  questa sede apostolica ha sempre opportunamente e maturamente provveduto,  e in questi ultimi tempi con significativa larghezza, a stabilire o  ristabilire la gerarchia ecclesiastica in quelle regioni in cui le  circostanze permettevano e consigliavano di addivenire alla costituzione  di sedi episcopali, affidandole quando era possibile a prelati nativi del  luogo. Nessuno, del resto, ignora che questo è stato costantemente il  programma d’azione della S. Congregazione «de Propaganda Fide». Fu  tuttavia l’epistola apostolica Maximum illud a mettere in piena evidenza,  come mai prima d’allora, tutta l’importanza e l’urgenza del problema,  richiamando ancora una volta, con accenti accorati e pressanti, l’impegno  urgente da parte di chi presiedeva alle missioni, di curare le vocazioni e  l’educazione di quello che allora si diceva clero indigeno, senza che  questo appellativo abbia mai rivestito alcun significato di  discriminazione o di menomazione, che si deve sempre escludere dal  linguaggio dei romani pontefici e dei documenti ecclesiastici.

 

Questo appello di Benedetto XV, rinnovato dai successori Pio XI e Pio XII  di v.m., ha già avuto i suoi provvidenziali e visibili frutti, e di ciò vi  invitiamo a ringraziare con Noi il Signore, il quale ha suscitato nelle  terre di missione una schiera numerosa ed eletta di vescovi e di  sacerdoti, fratelli e figli Nostri dilettissimi, aprendo così il Nostro  cuore alle più liete speranze. Un rapido sguardo, infatti, alle sole  statistiche dei territori affidati alla Sacra Congregazione «de Propaganda  Fide», non compresi quelli attualmente soggetti alle persecuzioni, ci  mostra che il primo vescovo di stirpe asiatica fu consacrato nel 1923 e i  primi vicari apostolici di stirpe africana furono nominati nel 1939. Fino  al 1959, si contano 68 vescovi di stirpe asiatica e 25 di stirpe africana.  Il clero nativo è passato da 919 membri nel 1918 a 5553 nel 1957 per  l’Asia, e da 90 membri a 1811 nello stesso spazio di tempo per l’Africa.  In tal modo il Signore delle messi (Mt 9,58) ha voluto premiare le fatiche  e i meriti di quanti, con l’azione diretta e con molteplice  collaborazione, si sono dedicati al lavoro delle missioni secondo i  ripetuti insegnamenti di questa sede apostolica. A ragione, perciò, il  nostro predecessore Pio XII di v.m. poteva, con legittima soddisfazione,  affermare: «Un tempo la vita ecclesiastica, per quello che appare, si  svolgeva rigogliosa a preferenza nei paesi della vecchia Europa, donde si  diffondeva, come fiume maestoso, a quella che poteva dirsi la periferia  del mondo; oggi appare invece come uno scambio di vita e di energie fra  tutti i membri del corpo mistico di Cristo sulla terra. Non poche regioni  in altri continenti hanno da molto tempo superato il periodo della forma  missionaria della loro organizzazione ecclesiastica, sono rette da propria  gerarchia e danno a tutta la chiesa dei beni spirituali e materiali,  mentre prima soltanto ricevevano».(9) All’episcopato e al clero delle  nuove chiese desideriamo rivolgere la Nostra paterna esortazione a pregare  e agire in modo tutto particolare, affinché il loro sacerdozio diventi  fecondo con l’impegno di parlare spessissimo, nelle istruzioni  catechistiche e nella predicazione, della dignità, della bellezza, della  necessità e dell’alto merito dello stato sacerdotale, sì da invogliare  tutti coloro che Dio volesse chiamare a così eccelso onore, a  corrispondere senza indugi e con animo grande alla vocazione divina.  Facciamo pregare altresì le anime loro affidate, mentre la chiesa tutta  secondo l’esortazione del divino Redentore non cessa di elevare suppliche  al cielo per le stesse intenzioni, affinché il Signore «mandi operai per  la sua messe» (Lc 10,2), specialmente in questi tempi in cui «la messe è  molta e gli operai sono pochi (Lc 10,2).

 

Le chiese locali dei territori di missione, anche fondate e stabilite con  la propria gerarchia, sia per la vastità di territorio, sia per il numero  crescente dei fedeli e l’ingente moltitudine di quelli che aspettano la  luce dell’evangelo, continuano ad aver ancora bisogno dell’opera dei  missionari venuti da altri paesi. Di essi, peraltro, si può ben dire:  «Essi non sono affatto stranieri, poiché ogni sacerdote cattolico nello  svolgimento delle sue mansioni si trova come nella sua patria, dovunque il  regno di Dio fiorisce o è ai suoi inizi».(10) Lavorino, dunque, tutti  insieme, nell’armonia di una fraterna, sincera e delicata carità, sicuro  riflesso dell’amore che essi hanno per il Signore e per la sua chiesa, in  perfetta, festosa e filiale obbedienza ai vescovi «che lo Spirito Santo ha  posto a reggere la chiesa di Dio» (At 20,28), ognuno grato all’altro per  la collaborazione offerta, «un cuore solo e un’anima sola» (At 4,32),  affinché dal modo come essi si amano rifulga agli occhi di tutti che sono  veramente discepoli di colui che agli uomini ha dato come primo e più  grande precetto, come comandamento «nuovo» e suo, quello del mutuo amore  (Gv 13,34; 15,12).

 

II Il Nostro predecessore nella Maximum illud ebbe a cuore di inculcare ai  reggitori di missioni che le loro più assidue premure dovevano essere  rivolte alla «completa e perfetta»(11) formazione del clero locale, come  quello che «avendo comuni con i suoi connazionali l’origine, l’indole, la  mentalità e le aspirazioni, è meravigliosamente adatto a istillare nei  loro cuori la fede, perché più di ogni altro sa le vie della  persuasione».(12) È appena necessario ricordare che un’educazione sacerdotale perfetta deve  essere innanzitutto rivolta all’acquisto delle virtù proprie del santo  stato, essendo questo il primo dovere del sacerdote, «il dovere cioè di  attendere alla propria santificazione».(13) Il nuovo clero nativo deve  entrare in una santa gara col clero delle più antiche diocesi, che ha dato  al mondo sacerdoti i quali, per l’eroicità delle loro specchiate virtù e  l’eloquenza viva del loro esempio, hanno meritato di essere proposti a  modello del clero di tutta la chiesa. È specialmente con la santità,  infatti, che il clero può dimostrare di essere luce e sale della terra (Mt  5,13-14), cioè della propria nazione e di tutto il mondo, può convincere  della bellezza e potenza dell’evangelo, può efficacemente insegnare ai  fedeli che la perfezione della vita cristiana è una mèta alla quale  possono e devono tendere con ogni sforzo e con perseveranza tutti i figli  di Dio, qualunque sia la loro origine, il loro ambiente, la loro cultura e  la loro civiltà.

 

Nel Nostro animo paterno vagheggiamo il giorno in cui il clero locale  potrà ovunque dare soggetti capaci di educare alla santità gli alunni  stessi del santuario come loro guide spirituali. Ai vescovi e ai reggitori  di missioni, Noi rivolgiamo anzi l’invito di non esitare a scegliere fin  d’ora, tra il clero locale, sacerdoti i quali per la loro virtù e la loro  prudenza diano affidamento di essere per i seminaristi loro connazionali  sicuri maestri nella formazione spirituale.

 

La chiesa, inoltre, come voi ben sapete, venerabili fratelli, ha sempre  richiesto che i suoi sacerdoti siano resi adatti al loro ministero  mediante un’educazione intellettuale solida e compiuta. Che di tanto siano  capaci i giovani di ogni stirpe e provenienti da ogni parte del mondo, non  vale più la pena nemmeno di ricordarlo, tanto i fatti e l’esperienza lo  hanno dimostrato con evidenza. Ovviamente, la formazione del clero locale  deve tenere nel debito conto i fattori ambientali propri delle varie  regioni. Per tutti i candidati al sacerdozio vale la sapientissima norma  secondo la quale essi non devono essere formati «in un ambiente troppo  avulso dal mondo»,(14) poiché in tal modo «quando andranno in mezzo alla  società troveranno poi serie difficoltà nelle relazioni col popolo e con  la classe colta, e quindi succederà spesso o che prendano un atteggiamento  errato e falso verso i fedeli, o che considerino sfavorevolmente la  formazione ricevuta».(15) Essi dovranno essere sacerdoti spiritualmente  perfetti, ma anche «gradualmente e prudentemente inseriti in quella parte  del mondo»(16) che è toccata loro in sorte, perché la illuminino con la  verità e la santifichino con la grazia di Cristo. A tale scopo, anche per  quel che riguarda il regime di vita del seminario, conviene insistere  sulla maniera di vivere locale, non senza, però, mettere a frutto tutte  quelle facilitazioni di ordine tecnico o materiale che ormai sono bene e  patrimonio di tutte le civiltà, in quanto rappresentano un reale progresso  per un tenore di vita più elevato e una più adatta salvaguardia delle  forze fisiche.

 

La formazione del clero autoctono, diceva il Nostro venerato predecessore  Benedetto XV, deve mirare a renderlo capace di prendere nelle mani, appena  ciò è possibile, il governo delle nuove chiese e di guidare, con  l’insegnamento e il ministero, i propri connazionali nella via della  salvezza.(17) A tale scopo, Ci sembra sommamente opportuno che tutti  coloro i quali, sia allogeni che nativi, curano detta formazione, si  impegnino coscienziosamente a sviluppare nei loro alunni il senso di  responsabilità e lo spirito di iniziativa,(18) in modo che questi siano in  grado di assumere ben presto e progressivamente tutte le mansioni, anche  le più importanti, inerenti al loro ministero, in perfetta concordia col  clero allogeno, ma anche in eguale misura. Questa, infatti, sarà la prova  della reale efficacia dell’educazione ad essi impartita e costituirà il  coronamento e il premio migliore di quanti vi hanno contribuito.

 

In vista appunto di una formazione intellettuale che tenga conto delle  necessità reali e della mentalità di ciascun popolo, questa sede  apostolica ha sempre raccomandato gli studi speciali di missionologia non  soltanto per il clero allogeno, ma anche per il clero nativo. Così il  Nostro predecessore Benedetto XV decretava l’istituzione degli  insegnamenti di materie missionarie nel Pontificio ateneo Urbaniano «de  Propaganda Fide»,(19) e Pio XII rilevava con soddisfazione l’erezione  dell’Istituto missionario scientifico nello stesso ateneo Urbaniano «e  l’istituzione, sia a Roma che altrove, di facoltà e cattedre di  missionologia».(20) Perciò i programmi dei seminari locali in terra di  missione non mancheranno di assicurare corsi di studio nei vari rami della  missionologia e l’insegnamento delle diverse conoscenze e tecniche  specialmente utili per il ministero futuro del clero di quelle regioni. Si  provvederà a tale scopo ad un insegnamento che, nello spirito della più  pura e salda tradizione ecclesiastica, sappia formare accuratamente il  giudizio dei sacerdoti sui valori culturali locali, specialmente  filosofici e religiosi, nella loro relazione con l’insegnamento e la  religione cristiana. «La chiesa cattolica – ha detto il Nostro immortale  predecessore Pio XII – non disprezza o rigetta completamente il pensiero  pagano, ma piuttosto, dopo averlo purificato da ogni scoria di errore, lo  completa e lo perfeziona con sapienza cristiana. Così parimenti ha accolto  il progresso nel campo delle scienze e delle arti… e in qualche maniera  consacrò i particolari costumi e le antiche tradizioni dei popoli; le  stesse feste pagane, trasformate, servirono per celebrare le memorie dei  martiri e i divini misteri».(21) Noi stessi abbiamo già avuto modo di  manifestare su questo argomento il Nostro pensiero: «Dappertutto… dove  autentici valori d’arte e di pensiero sono suscettibili di arricchire la  famiglia umana, la chiesa è pronta a favorire tali fatiche dello spirito.  Essa medesima, come sapete, non si identifica con nessuna cultura, nemmeno  con la cultura occidentale, alla quale la sua storia è strettamente  legata. Perché la sua missione appartiene a un altro ordine, all’ordine  della salute religiosa dell’uomo. Però la chiesa, così ricca di giovinezza  che incessantemente si rinnova al soffio dello Spirito, resta sempre  disposta a riconoscere, ad accogliere anzi, anche ad animare tutto quello  che è di onore all’intelligenza e al cuore umano nelle altre parti del  mondo, diverso da questo bacino mediterraneo, che fu culla provvidenziale  del cristianesimo».(22) I sacerdoti nativi ben preparati e addestrati in questo campo così  difficile e importante, nel quale essi sono in grado di dare contributi  assai preziosi, potranno dar vita, sotto la direzione dei loro vescovi, a  movimenti di penetrazione anche fra le classi colte, specialmente nelle  nazioni di antica e alta cultura, sull’esempio di famosi missionari dei  quali basti citare per tutti il p. Matteo Ricci. Anche al clero nativo,  infatti, spetta il compito di «ridurre ogni intelletto all’ossequio di  Cristo» (2Cor 10,5), come diceva quell’incomparabile missionario che fu  san Paolo, e così «attirarsi in patria la stima anche delle personalità e  dei dotti».(23) A loro giudizio, i vescovi provvedano tempestivamente a  costituire, per i bisogni di una o più regioni, dei centri di cultura, nei  quali missionari allogeni e sacerdoti nativi avranno modo di mettere a  frutto la loro preparazione intellettuale e la loro esperienza a beneficio  della società in cui vivono per elezione o per nascita. In questo campo è  necessario anche ricordare ciò che ha suggerito il Nostro immediato  predecessore Pio XII, che cioè è dovere dei fedeli «moltiplicare e  diffondere la stampa cattolica in tutte le sue forme»(24) e preoccuparsi  altresì «delle tecniche moderne di diffusione e di cultura, poiché è nota  l’importanza di una pubblica opinione formata e illuminata».(25) Non tutto  si potrà fare dovunque, ma non bisogna lasciarsi sfuggire nessuna buona  occasione per provvedere a queste reali e urgenti necessità, anche se  talvolta «chi semina non è lo stesso che raccoglie» (Gv 4,37).

 

La diffusione della verità e della carità di Gesù Cristo è la vera  missione della chiesa, che ha il dovere di offrire ai popoli «nella  massima misura possibile, le sostanziali ricchezze della sua dottrina e  della sua vita, animatrice di un nuovo ordine sociale cristiano».(26) Essa  perciò, nei territori di missione, provvede con tutta la larghezza  possibile anche a iniziative di carattere sociale e assistenziale che sono  di sommo giovamento alle comunità cristiane e ai popoli in mezzo ai quali  esse vivono. Si badi tuttavia a non ingombrare l’apostolato missionario  con un complesso di istituzioni di ordine puramente profano. Ci si limiti  a quei servizi indispensabili di agevole mantenimento e di facile uso, il  cui funzionamento potrà essere messo al più presto nelle mani del  personale locale, e si dispongano le cose in modo che al personale  propriamente missionario venga offerta la possibilità di dedicare le  migliori energie al ministero di insegnamento, di santificazione e di  salvezza.

 

Se è vero che, per un apostolato il più ampiamente fruttuoso, è di  primaria importanza che il sacerdote nativo conosca e sappia con ogni  intelligenza e prudenza stimare i valori locali, resterà ancora a maggior  ragione vero che per esso vale ciò che il Nostro immediato predecessore  diceva di tutti i fedeli: «Le prospettive universali della chiesa saranno  le prospettive normali della loro vita cristiana».(27) A tal fine, il  clero locale dovrà essere non solo informato degli interessi e delle  vicende della chiesa universale, ma dovrà essere educato a un intimo,  universale respiro di carità. San Giovanni Crisostomo diceva delle  celebrazioni liturgiche cristiane: «Quando noi siamo all’altare, preghiamo  innanzi tutto per il mondo intero e per gli interessi collettivi»;(28) e  sant’Agostino bellamente affermava: «Se vuoi amare Cristo, effondi la  carità su tutta la terra, perché i membri di Cristo sono nel mondo  intero».(29) Nel desiderio appunto di salvaguardare in tutta la sua purezza questo  spirito cattolico che deve animare l’opera dei missionari, il Nostro  predecessore Benedetto XV non esitò a denunciare con espressioni severe un  pericolo che poteva far perdere di vista le altissime finalità  dell’apostolato missionario e comprometterne così l’efficacia: «Sarebbe  cosa ben triste – così scriveva nell’epistola Maximum illud – se qualche  missionario si rivelasse talmente noncurante della sua dignità da pensare  più alla patria terrena che alla celeste, e preoccuparsi eccessivamente di  dilatare la sua potenza ed estendere la sua gloria. Questo modo di agire  costituirebbe un danno funestissimo per l’apostolato, e nel missionario  spegnerebbe ogni slancio di carità verso le anime e ne diminuirebbe il  prestigio nell’opinione del popolo».(30) Il medesimo pericolo potrebbe oggi ripetersi sotto altre forme, per il  fatto che in molti territori di missione si va facendo generale  l’aspirazione dei popoli all’autogoverno e all’indipendenza, e la  conquista delle libertà civili può sfortunatamente accompagnarsi ad  eccessi che non sono affatto in armonia con gli autentici e profondi  interessi spirituali dell’umanità.

 

Noi siamo pienamente fiduciosi che il clero nativo, mosso da sentimenti e  da propositi superiori in conformità con le esigenze universalistiche  della religione cristiana, contribuirà altresì al bene reale della propria  nazione.

 

«La chiesa di Dio è cattolica e non è straniera presso nessun popolo o  nazione»,(31) diceva lo stesso Nostro predecessore, e nessuna chiesa  locale potrà esprimere la sua vitale unione con la chiesa universale, se  il suo clero e il suo popolo si faranno suggestionare dallo spirito  particolaristico, da sentimenti di malevolenza verso gli altri popoli, da  un malinteso nazionalismo che distruggerebbe la realtà di quella  universale carità che edifica la chiesa di Dio, che sola è veramente  «cattolica».

 

III Insistendo sulla necessità di preparare col più grande zelo l’avvento del  clero autoctono e di formarlo adeguatamente allo scopo, il Nostro venerato  predecessore Benedetto XV non intendeva certamente escludere l’importanza,  anch’essa fondamentale, di un laicato nativo all’altezza della propria  vocazione cristiana e impegnato nell’apostolato. Ciò fece espressamente e  con tutto il rilievo l’immediato Nostro predecessore Pio XII,(32) il quale  ritornò più volte su questo vitale argomento che, oggi più che mai, si  impone alla considerazione e richiede di essere risolto dovunque nella  massima misura possibile.

 

Lo stesso Pio XII – e ciò torna a suo singolare merito e lode – con  copiosa dottrina e rinnovati incitamenti ha ammonito e incoraggiato i  laici a prendere sollecitamente il loro posto attivo nel campo  dell’apostolato in collaborazione con la gerarchia ecclesiastica; infatti,  fin dai primordi della storia cristiana e in tutte le epoche successive,  questa collaborazione dei fedeli ha fatto sì che i vescovi e il clero  potessero efficacemente sviluppare la loro opera tra i popoli, sia nel  campo propriamente religioso che in quello sociale. Ciò può e deve  verificarsi anche nei nostri tempi, i quali, anzi, rivelano maggiori  bisogni, proporzionati a un’umanità numericamente più vasta e con esigenze  spirituali moltiplicate e complesse. Del resto, dovunque viene fondata la  chiesa, essa deve essere sempre presente e attiva con tutta la sua  struttura organica, e quindi non soltanto con la gerarchia nei vari suoi  ordini, ma anche col laicato; ed è quindi per mezzo del clero e dei laici  che essa necessariamente deve svolgere la sua opera di salvezza.(33) Nelle nuove cristianità, non si tratta soltanto di procurare, con le  conversioni e i battesimi, un gran numero di cittadini al regno di Dio, ma  di renderli anche adatti, con un’adeguata educazione e formazione  cristiana, ad assumere ognuno secondo la propria condizione e le proprie  possibilità le loro responsabilità nella vita e nell’avvenire della  chiesa. Il numero dei cristiani significherebbe poco se difettasse la  qualità, se venisse meno la saldezza dei fedeli stessi nella professione  cristiana e se mancasse l’approfondimento della loro vita spirituale; se,  dopo esser nati alla fede e alla grazia, essi non fossero aiutati a  progredire nella giovinezza e nella maturità dello spirito, che dona  slancio e prontezza per il bene. La professione di fede cristiana,  infatti, non può essere ridotta a un dato anagrafico, ma deve investire e  modificare l’uomo nel profondo (Ef 4,24), dare significato e valore a  tutte le sue manifestazioni.

 

A tale mèta di maturità i laici non potranno giungere se il clero, sia  allogeno che nativo, non si proporrà tempestivamente il programma  suggerito già nelle linee essenziali dal primo papa: «Voi siete stirpe  eletta, sacerdozio regale, gente santa, popolo tratto in salvo perché  facciate conoscere i prodigi di colui che dalle tenebre vi chiamò  all’ammirabile sua luce» (1Pt 2,9).

 

Un’istruzione ed educazione cristiana che si ritenesse paga di aver  insegnato e fatto apprendere le formule del catechismo e i precetti  fondamentali della morale cristiana con una sommaria casistica, senza  impegnare la condotta pratica, si esporrebbe al rischio di procurare alla  chiesa di Dio un gregge per dir così passivo. Il gregge di Cristo, invece,  è formato di pecorelle che non solo ascoltano il loro pastore, ma sono in  grado di riconoscerne la voce (cf. Gv 10,4-14), di seguirlo fedelmente e  con piena consapevolezza sui pascoli della vita eterna (Gv 10,9-10) per  poter meritare un giorno dal Principe dei pastori «la corona  immarcescibile della gloria» (1Pt 5,4), pecorelle che, conoscendo e  seguendo il Pastore che ha dato la vita per esse (cf. Gv 10,11), siano  pronte a dedicare la loro vita a lui e adempierne la volontà di condurre a  far parte dell’unico ovile le altre pecorelle che non lo seguono, ma  vagano lontane da lui, che è via, verità e vita (cf. Gv 14,6).

 

Lo slancio apostolico appartiene essenzialmente alla professione di fede  cristiana: infatti «ognuno è tenuto a diffondere in mezzo agli altri la  sua fede, sia per istruire o confermare gli altri fedeli, sia ancora per  respingere gli attacchi degli infedeli»,(34) specialmente nei tempi, come  i nostri, in cui l’apostolato è un impegno urgente per le difficili  circostanze in cui versano l’umanità e la chiesa.

 

Affinché sia possibile una completa e intensa educazione cristiana, si  richiede che gli educatori siano capaci di trovare le vie e i mezzi più  adatti per penetrare nelle varie psicologie, onde facilitare al massimo  nei nuovi cristiani l’assimilazione profonda della verità con tutte le sue  esigenze. Il nostro Salvatore, infatti, ha imposto a ognuno di noi la  realizzazione di questo supremo comandamento: «Amerai il Signore Dio tuo  con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente»  (Mt 22,37). Agli occhi dei fedeli deve ben presto brillare in tutto il suo  splendore la sublimità della vocazione cristiana, affinché efficacemente  si accenda nel loro cuore il desiderio e il proposito di una vita virtuosa  e attiva, modellata sulla vita stessa del Signore Gesù, che avendo assunto  la umana natura ci ha comandato di seguire i suoi esempi (cf. 1Pt 2,21; Mt  11,29; Gv 13,15).

 

Ogni cristiano deve essere convinto del suo fondamentale e primordiale  dovere di essere testimone della verità in cui crede e della grazia che lo  ha trasformato. «Il Cristo – diceva un grande padre della chiesa – ci ha  lasciati sulla terra affinché adempissimo il nostro compito di fermento,  affinché ci comportassimo come angeli, come annunziatori tra gli uomini,  affinché fossimo adulti tra i minori, uomini spirituali tra i carnali al  fine di guadagnarli, affinché fossimo semente e portassimo frutti  numerosi. Non sarebbe neppur necessario esporre la dottrina, se la nostra  vita fosse a tal punto irradiante; non sarebbe necessario ricorrere alle  parole, se le nostre opere dessero una tale testimonianza. Non ci sarebbe  più alcun pagano, se ci comportassimo da veri cristiani».(35) Questo, come è facile comprendere, è il dovere di tutti i cristiani di  tutto il mondo. Ma è facile capire che nei paesi di missione esso potrebbe  portare frutti speciali e particolarmente preziosi ai fini della  dilatazione del regno di Dio anche presso coloro che non conoscono la  bellezza della nostra fede e la soprannaturale potenza della grazia, come  già ci esortava Gesù: «Così risplenda la vostra luce dinanzi agli uomini,  affinché vedano le vostre opere buone, e glorifichino il vostro Padre che  è nei cieli» (Mt 5,16), e san Pietro ammoniva amorosamente i fedeli: «O  cari, io vi esorto… ad astenervi dalle brame carnali, che fanno guerra  all’anima, e a tener fra i gentili buona condotta affinché mentre ora vi  calunniano quali malfattori, per effetto delle vostre buone opere,  osservando meglio, diano gloria a Dio quando piacerà visitarli» (1Pt  2,12).

 

La testimonianza dei singoli ha bisogno di essere confermata e ampliata da  quella di tutta intera la comunità cristiana, a somiglianza di quanto  avveniva nella stagione primaverile della chiesa, quando l’unione compatta  e perseverante di tutti i fedeli «nell’insegnamento degli apostoli e nella  comune frazione del pane e nelle orazioni» (At 2,42) e nell’esercizio  della più generosa carità era motivo di soddisfazione profonda e di mutua  edificazione; infatti essi «lodavano Dio ed erano ben visti da tutto il  popolo. E il Signore poi aumentava ogni giorno quelli che venivano a  salvezza» (At 2,47).

 

L’unione nelle preghiere e nella partecipazione attiva alla celebrazione  dei divini misteri nella liturgia della chiesa contribuisce in maniera  particolarmente efficace alla pienezza e ricchezza della vita cristiana  dei singoli e della comunità, ed è un mezzo mirabile per educare a quella  carità che è il segno distintivo del cristiano; una carità che rifugge da  ogni discriminazione sociale linguistica e razziale, che allarga le  braccia e il cuore a tutti, fratelli e nemici. Su questo argomento Ci  piace fare Nostre le parole del Nostro predecessore san Clemente Romano:  «Quando [i gentili] odono da noi che Dio dice: “Non c’è merito per voi se  amate quelli che vi amano, ma c’è merito se amate i nemici e coloro che vi  odiano” (Lc 6,32-35), all’udire queste parole essi ammirano l’altissimo  grado di carità. Ma quando vedono che noi non solo non amiamo quelli che  ci odiano, ma neppure quelli che ci amano, essi ridono di noi e il nome  [di Dio] è bestemmiato».(36) Il più grande dei missionari, san Paolo  apostolo, scrivendo ai Romani nel momento in cui si accingeva ad  evangelizzare l’estremo occidente, esortava alla «carità senza finzione»  (Rm 12,9ss), dopo aver elevato un inno sublime a questa virtù, «senza la  quale il cristiano è nulla» (1Cor 13,2).

 

La carità diventa visibile altresì nel soccorso materiale, come affermava  il Nostro immortale predecessore Pio XII: «Il corpo esige anche una  moltitudine di membra, tra di loro congiunte per darsi vicendevole aiuto.  Che se, nel nostro organismo mortale, quando un membro soffre, tutti gli  altri soffrono con lui, fornendo i membri sani il proprio aiuto a quelli  malati, parimenti nella chiesa ogni membro non vive unicamente per sé, ma  aiuta altresì gli altri per loro mutua consolazione, come pure per un  migliore sviluppo di tutto il corpo mistico».(37) Le necessità materiali dei fedeli includono anche quella dell’organismo  ecclesiastico, ed è bene perciò che i fedeli nativi si abituino a  sostenere spontaneamente, nella misura delle loro possibilità, le loro  chiese, le loro istituzioni e il clero che si è tutto dedicato ad essi.  Non importa se questo contributo non potrà essere notevole; l’importante è  che sia testimonianza sensibile di viva coscienza cristiana.

 

IV I fedeli cristiani, membra di un organismo vivo, non possono restar chiusi  in se stessi e credere che basti aver pensato e provveduto ai propri  bisogni spirituali per compiere tutto il loro dovere. Ognuno, invece, per  la propria parte deve contribuire all’incremento e alla diffusione del  regno di Dio sulla terra. Il Nostro predecessore Pio XII ha richiamato a  tutti questo universale dovere: «La cattolicità è una nota essenziale  della vera chiesa: a tal punto che un cristiano non è veramente  affezionato e devoto alla chiesa, se non è ugualmente attaccato e devoto  alla sua universalità, desiderando che essa metta radici e fiorisca in  tutti i luoghi della terra».(38) Tutti devono entrare in una gara di santa emulazione e dare assidue  testimonianze di zelo per il bene spirituale del prossimo, per la difesa  della propria fede, per farla conoscere a chi la ignora del tutto o a chi  malamente la conosce e perciò malamente la giudica. Fin dall’infanzia e  dall’adolescenza, anche nelle più giovani comunità cristiane, è necessario  che il clero, le famiglie e le varie organizzazioni locali di apostolato  inculchino questo santo dovere. Ci sono poi alcune occasioni  particolarmente felici, in cui tale educazione all’apostolato può trovare  il posto più adatto e la più convincente espressione. Tale, per esempio, è  la preparazione dei giovanetti o dei neo-battezzati al sacramento della  confermazione, con cui «viene infusa una nuova forza nei credenti per  difendere la santa madre chiesa e la fede che hanno da essa ricevuto»;(39)  preparazione, questa, sommamente opportuna, là specialmente dove esistono  nei costumi locali apposite cerimonie di iniziazione per preparare i  giovani all’ingresso ufficiale nel loro gruppo sociale.

 

Non possiamo qui fare a meno di dare il giusto rilievo all’opera dei  catechisti, che nella lunga storia delle missioni cattoliche si sono  dimostrati di insostituibile ausilio. Essi sono sempre stati il braccio  destro degli operai del Signore, e ne hanno partecipato e alleviato le  fatiche al punto che i Nostri predecessori potevano considerare il loro  reclutamento e la loro formazione accuratissima tra i «punti  importantissimi per la diffusione dell’evangelo»(40) e definirli «il caso  forse più classico dell’apostolato laico».(41) Ad essi Noi rinnoviamo i  più ampi elogi e li esortiamo a meditare sempre più sulla spirituale  felicità della loro condizione e a non desistere mai da ogni sforzo per  arricchire e approfondire, sotto la guida della gerarchia, la loro  istruzione e formazione morale. I catecumeni devono imparare da essi non  soltanto i rudimenti della fede, ma anche la pratica della virtù, l’amore  grande e sincero a Cristo e alla sua chiesa. Ogni cura dedicata  all’aumento del numero di questi validissimi aiuti della gerarchia e alla  loro adeguata formazione, e ogni sacrificio dei catechisti per adempiere  nel modo più adatto e perfetto il loro compito, sarà un contributo di  immediata efficacia per la fondazione e il progresso delle nuove comunità  cristiane.

 

Nella Nostra prima enciclica abbiamo già richiamato i molteplici gravi  motivi che impongono oggi, in tutti i paesi del mondo, di reclutare i  laici «nel pacifico esercito dell’Azione cattolica, con l’intento di  averli collaboratori nell’apostolato della gerarchia ecclesiastica».(42)  Abbiamo anche manifestato il Nostro compiacimento per «quanto si è fatto  nel passato, anche in terre di missione, da questi preziosi collaboratori  dei vescovi e dei sacerdoti»,(43) e vogliamo qui rinnovare, con tutta  l’urgenza della carità che Ci sospinge (2Cor 5,14), l’ammonimento e  l’appello del Nostro predecessore Pio XII «sulla necessità che i laici  tutti nelle missioni, affluendo numerosissimi nelle file dell’Azione  cattolica, collaborino attivamente con la gerarchia ecclesiastica  nell’apostolato».(44) I vescovi dei paesi di missione, il clero secolare e  regolare, i fedeli più generosi e preparati, hanno compiuto i più lodevoli  sforzi per tradurre in atto questa volontà del sommo pontefice, e si può  dire che dovunque ormai è una fioritura di iniziative e di opere. Non si  insisterà mai abbastanza, però, sulla necessità di adattare  convenientemente questa forma di apostolato alle condizioni ed esigenze  locali. Non basta trasferire in un paese ciò che è stato fatto altrove, ma  sotto la guida della gerarchia e nello spirito della più lieta obbedienza  ai sacri pastori, bisogna fare in modo che l’organizzazione non risulti un  sovraccarico che imbrigli o disperda preziose energie, con movimenti  frammentari e di eccessiva specializzazione che, necessari altrove,  potrebbero risultare meno utili in ambienti, dove le circostanze e i  bisogni sono del tutto diversi. Nella Nostra prima enciclica abbiamo anche  promesso di ritornare con maggiore ampiezza sopra questo argomento  dell’Azione cattolica e a suo tempo anche i paesi di missione potranno  trarne giovamento e impulso nuovo. Nel frattempo, tutti lavorino in piena  concordia e con spirito soprannaturale, nella convinzione che soltanto  così potranno gloriarsi di mettere le loro forze al servizio della causa  di Dio, della spirituale elevazione e del miglior progresso dei loro  popoli.

 

L’Azione cattolica è una organizzazione di laici «con proprie e  responsabili funzioni esecutive»;(45) i laici quindi ne compongono i  quadri direttivi. Ciò comporta la formazione di uomini capaci di imprimere  alle varie associazioni lo slancio apostolico e di assicurarne il miglior  funzionamento; uomini e donne, quindi, per essere degni di vedersi  affidare dalla gerarchia la direzione centrale o periferica delle  associazioni, devono fornire le più ampie garanzie di una formazione  cristiana intellettuale e morale solidissima, in virtù della quale possano  «trasfondere negli altri ciò che essi già, con l’aiuto della divina  grazia, posseggono».(46) Si può ben dire che la sede naturale di questa formazione dei dirigenti  laici di Azione cattolica sia la scuola. E la scuola cristiana  giustificherà la sua ragion d’essere nella misura in cui i suoi maestri,  sacerdoti e laici, religiosi e secolari, riusciranno a formare dei solidi  cristiani.

 

Nessuno ignora l’importanza che ha sempre avuto e avrà la scuola nei paesi  di missione e quanta energia la chiesa ha impiegato nell’istituzione di  scuole di ogni ordine e grado, e nella difesa della loro esistenza e  prosperità. Ma un programma di formazione di dirigenti di Azione  cattolica, come è ovvio, difficilmente può trovare il suo posto nei corsi  scolastici, per cui sarà il più spesso necessario affidarsi a iniziative  extrascolastiche che raccolgano i giovani di migliori speranze per  istruirli e formarli all’apostolato. Gli ordinari, perciò, procureranno di  studiare la forma migliore per dar vita a scuole di apostolato, i cui  metodi educativi sono ovviamente differenti dai metodi scolastici veri e  propri. A volte si tratterà anche di preservare da false dottrine  fanciulli e giovani che sono costretti a frequentare scuole non  cattoliche; in ogni caso sarà necessario bilanciare l’educazione  umanistica e tecnica ricevuta nelle scuole pubbliche con un’educazione  spirituale particolarmente intelligente e intensa, affinché non accada che  l’istruzione produca individui falsamente evoluti, pieni di pretese e  piuttosto nocivi che utili alla chiesa e ai popoli. La loro formazione  spirituale deve essere contemperata al grado di sviluppo intellettuale,  intesa a prepararli a vivere cattolicamente nel loro ambiente sociale e  professionale e ad assumere, a suo tempo, il loro posto nella vita  cattolica organizzata. A tale scopo, nel caso in cui i giovani cristiani  siano costretti a lasciare la loro comunità per frequentare in altre città  le scuole pubbliche, sarà opportuno pensare all’istituzione di  «pensionati» e luoghi di ritrovo che assicurino ad essi un ambiente  religiosamente e moralmente sano, congeniale e adatto a indirizzare le  loro capacità ed energie verso gli ideali apostolici. Attribuendo alle  scuole un compito speciale e particolarmente efficace nella formazione dei  dirigenti di Azione cattolica, non vogliamo certo sottrarre alle famiglie  la loro parte di responsabilità, né negare il loro influsso, che può  essere anche più vigoroso ed efficace di quello della scuola,  nell’alimentare nei loro figliuoli la fiamma dell’apostolato e nel curare  una formazione cristiana sempre più matura e aperta all’azione. La  famiglia, infatti, è una scuola ideale e insostituibile.

 

La «buona battaglia» (2Tm 4,7) per la fede si combatte non soltanto nel  segreto della coscienza o nell’intimità della casa, ma anche nella vita  pubblica in tutte le sue forme. In tutti i paesi del mondo si pongono oggi  problemi di varia natura, le cui soluzioni sono procurate facendo il più  spesso appello alle sole risorse umane e obbedendo a principi che non  sempre sono d’accordo con le esigenze della fede cristiana. Molti  territori di missione, inoltre, stanno attraversando «una fase di  evoluzione sociale, economica e politica, che è gravida di conseguenze per  il loro avvenire».(47) Problemi che in altre nazioni o sono già stati  risolti o trovano nella tradizione elementi di soluzione, si impongono ad  altri paesi con un’urgenza che non è scevra da pericoli, in quanto  potrebbe consigliare soluzioni affrettate e mutuate con deplorevole  leggerezza da dottrine che non tengono in nessun conto o addirittura  contraddicono gli interessi religiosi degli individui e dei popoli. I  cattolici, per il loro bene privato e per il pubblico bene della chiesa,  non possono né ignorare tali problemi, né aspettare che ad essi vengano  date pregiudizievoli soluzioni che in avvenire esigerebbero uno sforzo ben  più grande di raddrizzamento e rappresenterebbero ulteriori ostacoli  all’evangelizzazione del mondo.

 

Nel campo della pubblica attività i laici dei paesi di missione hanno la  loro più diretta e preponderante azione, ed è necessario provvedere con la  massima tempestività e urgenza affinché le comunità cristiane offrano alle  loro patrie terrene, per il loro comune bene, uomini che onorino le varie  professioni e attività nello stesso tempo in cui onorano, con la loro  solida vita cristiana, la chiesa che li ha rigenerati alla grazia, in modo  che i sacri pastori possano ad essi ripetere la lode che leggiamo negli  scritti di san Basilio: «Ho ringraziato Dio santissimo del fatto che, pur  essendo occupati nei pubblici affari, voi non avete trascurato quelli  della chiesa; al contrario, ognuno di voi se ne è preoccupato come se si  trattasse di un affare personale, dal quale dipende la sua propria  vita».(48) In particolare, nel campo dei problemi e dell’organizzazione della scuola,  dell’assistenza sociale organizzata, del lavoro, della vita politica, la  presenza di esperti cattolici nativi potrà avere la più felice e benefica  influenza se essi sapranno, come è loro preciso dovere che non potrebbero  trascurare senza accusa di tradimento, ispirare le loro intenzioni e la  loro azione ai principi cristiani, che una lunghissima storia dimostra  efficienti e decisivi per procurare il bene comune.

 

A tale scopo, come già esortava il Nostro predecessore Pio XII di v.m.,  non sarà difficile convincersi della preziosità e dell’importanza  dell’aiuto fraterno che le Organizzazioni internazionali cattoliche  potranno dare all’apostolato laico nei paesi di missione, sia sul piano  scientifico, con lo studio della soluzione cristiana da dare ai problemi  specialmente sociali delle nuove nazioni, sia sul piano apostolico,  soprattutto, per l’organizzazione del laicato cristiano attivo. Ci è noto  ciò che è stato fatto e si va facendo da parte dei laici missionari, che  hanno scelto di abbandonare temporaneamente o definitivamente la loro  patria per contribuire con molteplici attività al bene sociale e religioso  dei paesi di missione, e preghiamo ardentemente il Signore che moltiplichi  le schiere di questi generosi e li sorregga nelle difficoltà e nelle  fatiche che essi affrontano con spirito apostolico. Gli istituti secolari  potranno dare ai bisogni del laicato nativo in terra di missione un aiuto  incomparabilmente fecondo, se con il loro esempio susciteranno imitatori e  se metteranno a disposizione degli ordinari le loro forze per accelerare  il processo di maturità delle giovani comunità.

 

Il Nostro appello va anche a tutti quei laici cattolici che dovunque  emergono nelle professioni e nella vita pubblica, affinché considerino  seriamente la possibilità di aiutare i loro nuovi fratelli nella fede,  anche senza abbandonare la loro patria. Il loro consiglio, la loro  esperienza, la loro assistenza tecnica, potranno, senza eccessiva fatica e  senza gravi incomodi, portare un contributo a volte risolutivo. Non  mancherà ai buoni lo spirito di iniziativa per tradurre in pratica questo  Nostro paterno desiderio, facendolo conoscere là dove potrà essere  accolto, incoraggiando le buone disposizioni e facendo trovare ad esse il  migliore impiego.

 

Il Nostro immediato predecessore esortò i vescovi affinché, con spirito di  collaborazione fraterna e disinteressata, provvedessero all’assistenza  spirituale dei giovani cattolici venuti nelle loro diocesi dai paesi di  missione, per compiere gli studi e acquistare esperienze che li metteranno  in grado di assumere funzioni direttive nel proprio paese.(49) A quali  pericoli intellettuali e morali essi siano esposti in una società che non  è la loro e che spesso, purtroppo, non è tale da sostenere la loro fede e  incoraggiare la virtù, ognuno di voi, venerabili fratelli, se ne renderà  conto, e mosso dalla consapevolezza del dovere missionario che incombe a  tutti i sacri pastori, vi provvederà con la più sollecita carità e nei  modi più adatti. Non sarà difficile a voi rintracciare questi studenti,  affidarli a sacerdoti e laici particolarmente dotati per questo ministero,  assisterli spiritualmente, far sentire e sperimentare ad essi la fragranza  e le risorse della carità cristiana che ci fa tutti fratelli e premurosi  l’uno dell’altro. Ai tanti e così tangibili aiuti che voi date alle  missioni, si aggiunge questo che fa più immediatamente presente a voi un  mondo geograficamente lontano, ma spiritualmente anche vostro.

 

A questi studenti, poi, Noi vogliamo dire non soltanto tutto il Nostro  amore, ma anche rivolgere un pressante, affettuoso monito a portare  dovunque alta la fronte segnata dal sangue di Cristo e dall’unzione del  sacro crisma, a profittare del loro soggiorno all’estero non soltanto per  la loro formazione professionale, ma anche per l’ampliamento e il  perfezionamento della loro formazione religiosa. Essi potranno trovarsi  esposti a molti danni, ma si trovano anche nella buona occasione di trarre  molti vantaggi spirituali dalla loro dimora nelle nazioni cattoliche,  mentre ogni cristiano, chiunque esso sia e in qualsiasi parte della terra  sia nato, ha sempre il dovere del buon esempio e della scambievole  edificazione spirituale.

 

V Dopo avervi intrattenuti, venerabili fratelli, sui bisogni attuali più  caratteristici della chiesa nelle terre di missione, non possiamo fare a  meno di esprimere la Nostra commossa gratitudine verso tutti coloro che si  prodigano per la causa della propagazione della fede fino agli estremi  confini del mondo. Ai cari missionari del clero secolare e regolare, alle  religiose così esemplarmente generose e così preziose per le varie  necessità delle missioni, ai laici missionari prontamente accorsi sulle  frontiere della fede, Noi assicuriamo le particolarissime e quotidiane  Nostre preghiere e ogni altro aiuto che è in Nostro potere di dare. Il  successo della loro opera, visibile anche nella fecondità spirituale delle  giovani comunità cristiane, è il segno del gradimento e della benedizione  di Dio, e nello stesso tempo attestano la solerzia e la saggezza con cui  la Sacra Congregazione «de Propaganda Fide» e la Sacra Congregazione per  la chiesa orientale assolvono i delicati compiti loro affidati.

 

A tutti i vescovi, il clero e i fedeli delle diocesi del mondo intero che  contribuiscono con le preghiere e con le offerte ai bisogni spirituali e  materiali delle missioni, rivolgiamo l’incitamento a intensificare ancora  questa necessaria collaborazione. Nonostante la scarsezza di clero che  preoccupa i pastori anche delle più antiche diocesi, non si abbia la  minima esitazione a incoraggiare le vocazioni missionarie e privarsi di  eccellenti soggetti laici per metterli a disposizione delle nuove diocesi.  Di questo sacrificio non si tarderà a raccogliere i frutti soprannaturali.  La gara di generosità che vede assiduamente impegnati tutti i fedeli del  mondo nelle manifestazioni di zelo e di tangibile carità a vantaggio delle  Opere che, alle dipendenze della Sacra Congregazione «de Propaganda Fide»,  convogliano i soccorsi provenienti da ogni parte verso le destinazioni più  utili e urgenti, aumenti di quanto incessantemente crescono i bisogni. La  carità sollecita e concreta dei fratelli incoraggerà i fedeli delle  giovani comunità e farà ad essi sentire il calore di un affetto  soprannaturale che la grazia alimenta nel cuore.

 

Molte diocesi e comunità cristiane delle terre di missione soffrono  patimenti e persecuzioni anche sanguinose; ai sacri pastori che danno ai  loro figli spirituali l’esempio di una fede che non si lascia piegare e di  una fedeltà che non viene mai meno a prezzo anche del sacrificio della  vita; ai fedeli così duramente provati ma così cari al cuore di Gesù  Cristo che ha promesso la beatitudine e una ricompensa copiosa a coloro  che subiranno persecuzioni a causa della giustizia (Mt 5,10-12),  rivolgiamo la Nostra esortazione a perseverare nella loro santa battaglia,  poiché il Signore, sempre misericordioso nei suoi disegni imperscrutabili,  non farà loro mancare il soccorso delle grazie più preziose e dell’intima  consolazione. Coi perseguitati è, in comunione di preghiera e di  sofferenze, tutta quanta la chiesa di Dio, sicura nella sua attesa di  vittoria.

 

Invochiamo con tutta l’anima sulle missioni cattoliche la valida  assistenza dei loro santi patroni e santi martiri, e in modo specialissimo  l’intercessione di Maria santissima, madre amorosa di tutti noi e regina  delle missioni. A ciascuno di voi, venerabili fratelli, e a tutti coloro  che in qualche maniera collaborano alla crescita del regno di Dio,  impartiamo con l’affetto più grande l’apostolica benedizione, che sia  conciliatrice e auspice delle grazie del Padre celeste rivelatosi nel  Figlio suo, Salvatore del mondo, e che in tutti accenda e moltiplichi lo  zelo missionario.

 

Roma, presso San Pietro, il 28 novembre 1959, anno II del Nostro  pontificato.

 

GIOVANNI PP. XXIII

 

(1): Ioannes PP. XXIII, Litt. enc. Princeps Pastorum de catholicis  Missionibus, quadragesimo exacto anno ex quo Epistula Apostolica «Maximum  illud» a Benedicto Pp. XV edita est, [Ad venerabiles fratres Patriarchas,  Primates, Archiepiscopos, Episcopos aliosque locorum Ordinarios, pacem et  communionem cum Apostolica Sede habentes], 28 novembris 1959: AAS  51(1959), pp. 833-864. – Versione italiana: L’Osservatore Romano, 29 nov.  1959; La Civiltà cattolica, 110(1959), IV, pp. 561-582.
Prologo: Paterne premure dei sommi pontefici per le missioni. – I. La  gerarchia e il clero locale: L’appello della lettera apostolica «Maximum  illud» di Benedetto XV per il clero indigeno; provvidi sviluppi sotto i  pontificati di Pio XI e Pio XII, nella fraterna collaborazione tra il  clero locale e i missionari d’altri paesi. – II. La formazione del clero  locale: Educazione adattata all’ambiente, al senso di responsabilità e  d’iniziativa con l’avvicinamento e la penetrazione tra le classi colte;  educazione allo spirito di carità universale. – III. Il laicato nelle  missioni: Importanza del laicato cattolico nella vita della chiesa, sua  funzione, suoi doveri di testimonianza della verità e di carità anche nei  bisogni materiali della comunità. – IV. Direttive per 1’apostolato laico  nelle missioni: Preparazione all’apostolato e catechisti; azione cattolica  e dirigenti; laicato autoctono; studenti nativi nei paesi occidentali.
Conclusione: Un pensiero di gratitudine e benedizione a tutti i  missionari; esortazione ai vescovi, al clero e a tutti i fedeli ad  incrementare sempre più le missioni.
(2): Cf. Homilia in die Coronationis habita: AAS 50(1958), p. 886.
(3): Cf. La propagazione della fede, Scritti di A.G. RONCALLI, Roma 1958,  p. 103ss.
(4): Cf. AAS 11(1919), p. 440ss; EE 4/app.
(5): Cf. PIUS XI, Litt. enc. Rerum Ecclesiae: AAS 18(1926), p. 65ss; EE  5/164ss; Ptus XII, Litt. enc. Evangelii praecones: AAS 43(1951), p. 497ss;  EE 6/752ss; Fidei donum: AAS 49(1957), p. 225ss; EE 6/1307ss.
(6): Litt. enc. Ad Petri cathedram: AAS 51(1959), p. 497ss; EE 7/1-80.
(7): Cf. AAS 11(1919), p. 440ss; EE 4/app.
(8): Litt. enc. Evangelii praecones: AAS 43(1951), p. 507; EE 6/773.
(9): Cf. Pms XII, Nuntius radiophonicus die Natali D.N.LCh. habitus: AAS  38(1946), p. 20.
(10): Pius XII, Epist. ad Em.mum Card. Adeodatum Piazza: AAS 47(1955), p.  542.
(11): AAS 11(1919), p. 445; EE 4/app.
(12): AAS 11(1919), p. 445; EE 4/app.
(13): PIUS XII, Adhort. apost. Menti Nostrae: AAS 42(1950), p. 677; EE  6/app.
(14): Pius XII, Adhort. apost. Menti Nostrae: AAS 42(1950), p. 686; EE  6/app.
(15): Adhort. apost. Menti Nostrae: AAS 42(1950), p. 686; EE 6/app.
(16): Adhort. apost. Menti Nostrae: AAS 42(1950), p. 687; EE 6/app.
(17): Epist. apost. Maximum illud: AAS (1919), p. 445; EE 4/app.
(18): Cf. Adhort. apost. Menti Nostrae: AAS 42(1950), p. 686; EE 6/app.
(19): Cf. Epist. apost. Maximum illud: AAS 11(1919), p. 448; EE 4/app.
(20): Litt. enc. Evangelii praecones: AAS 43(1951), p. 500; EE 6/757.
(21): Litt. enc. Evangelii praecones: AAS 43(1951), p. 522; EE 6/809.
(22): Cf. Allocut. iis qui interfuerunt Conventui II «des Écrivains et  Artistes Noirs»: AAS 51(1959), p. 260.
(23): Pius XI, Litt. enc. Rerum Ecclesiae: AAS 18(1926), p. 77; EE S/178.
(24): Litt. enc. Fidei donum: AAS 49(1957), p. 233; EE 6/1317.
(25): Litt. enc. Fidei donum: AAS 49(1957), p. 233; EE 6/1317.
(26): Litt. enc. Fidei donum: AAS 49(1957), p. 231; EE 6/1315.
(27): Litt. enc. Fidei donum: AAS 49(1957), p. 238; EE 6/1323.
(28): Hom. 11 in 11 Cor.: PG 61, 398.
(29): In Ep. loan. ad Parthos, tr. 10, c. 5: PL 35, 2060.
(30): Epist. apost. Maximum illud: AAS 11(1919), p. 446; EE 4/app.
(31): Epist. apost. Maximum illud: AAS 11(1919), p. 445; EE 4/app.
(32): Litt. enc. Evangelii praecones: AAS 43(1951), p. 510ss; EE 6/781ss.
(33): Cf. Pms XII, Litt. enc. Mystici corporis: AAS 35(1943), pp. 200-201;  EE 6/167; Pius XI, Litt. enc. Rerum Ecclesiae: AAS 18(1926), p. 78; EE  5/180.
(34): S. THOMAS AQ., Summa theol., II-II, q. 3, a. 2, ad 2.
(35): S. IOANNES CHRYSOSTOMUS, Hom. X fIl 1 Tim.: PG 62, 551.
(36): F.X. Funk, Patres Apostolici, vol. I, p. 201.
(37): Litt. enc. Mystici corporis: AAS 35(1943), p. 200; EE 6/165.
(38): Litt. enc. Fidei donum: AAS 49(1957), p. 237; EE 6/1323.
(39): PIUS XII, Litt. enc. Mystici corporis: AAS 35(1943), p. 201; EE  6/168.
(40): Cf. Pius XI, Litt. enc. Rerum Ecclesiae: AAS 18(1926), p. 78; EE  5/180.
(41): Cf. Pius XII, Sermo anno 1957 habitum ad eos, qui alteri  interfuerunt Conventui catholicorum ex universo orbe pro laicorum  Apostolatu: AAS 49 (1957), p. 937.
(42): Cf. Litt. enc. Ad Petri cathedram: AAS 51(1959), p. 523; EE 7/60.
(43): Ibid.
(44): Litt. enc. Evangelii praecones: AAS 43(1951), p. 513; EE 6/788.
(45): Cf. Pius XII, Ep. de Actione Catholica, 11 oct. 1946: AAS 38(1946),  p. 422; Discorsi e radiomessaggi di S.S. Pio XII, VIII, p. 468.
(46): Litt. enc. Ad Petri cathedram: AAS 51(1959), p. 524; EE 7/62.
(47): Pius XII, Litt. enc. Fidei donum: AAS 49(1957), p. 229; EE 6/1312.
(48): Ep. 288: PG 32, 855.
(49): Cf. Litt. enc. Fidei donum: AAS 49(1957), p. 245; EE 6/1335.