«Concludo con un appello ai miei fratelli lavoratori della RWM Italia (fabbrica di bombe di Domusnovas ndr.): alzate la testa e rivendicate un lavoro socialmente utile e ecologicamente compatibile, la vostra coscienza lo vuole, saremo al vostro fianco».

A parlare è Elio Pagani, obiettore storico alla produzione militare, che negli anni Ottanta combattè per la riconversione della Aermacchi che produceva aerei da guerra in una fabbrica ad uso civile.

Pagani è intervenuto ad un recente convegno organizzato ad Iglesias dal Comitato di Riconversione della RWM Italia e da altre sigle pacifiste, su ‘Pace, lavoro, sviluppo’.

«A Domusnovas, in Sardegna, noi sogniamo la riconversione della fabbrica RWM», dice Cinzia Guaita, del Movimento dei Focolarini e portavoce del Comitato di cittadini contro la fabbrica di bombe.

«Questa fabbrica si è sempre giovata del silenzio e delle mancate prese di posizione, non solo da parte della politica, ma anche da parte nostra, cittadini di Iglesias e Domusnovas», spiega Cinzia a Popoli e Missione.

Il ramo produttivo in Italia della Rheinmetall Defence tedesca è da tempo nell’occhio del ciclone per essere la fucina di bombe rivendute all’Arabia Saudita e sganciate principalmente sullo Yemen.

Ha il suo quartier generale a Ghedi, in provincia di Brescia e la sua produzione in una Sardegna apparentemente lontana dai riflettori.

«So che qui, ora, i principali sindacati si sono opposti ad ogni ipotesi di riconversione. Mi sembra che i ‘signori sindacalisti’ dell’Iglesiente abbiano perduto ogni riferimento ai valori di fondo», ha denunciato ancora Pagani nel corso del convegno.

Da sempre quella del Sulcis è una zona a rischio. Equivoca, sfruttata, male utilizzata. È la zona delle montagne, delle coste spettacolari e delle campagne.

Dove il lavoro scarseggia e l’industria quasi non esiste. Se non, appunto, quella bellica. Non si è mai riusciti da queste parti ad avere fabbriche del tutto “pulite”. Negli anni Novanta vi si producevano esplosivi per miniere.

«Nel 2001 quella fabbrica viene chiusa e riconvertita al bellico con fondi pubblici – spiega Guaita –; da subito ci fu una fortissima opposizione da parte del territorio. All’epoca la Chiesa aveva assunto immediatamente una posizione contraria».

Ma i tedeschi e gli italiani insieme vanno avanti e nasce la RWM. Negli ultimi 15 anni il grande silenzio: attorno alla fabbrica di Domusnovas regna il mistero.

Almeno fino a due anni fa. I riflettori sulla fabbrica si riaccendono con l’acuirsi della guerra in Yemen nel 2015, e con la scoperta che gli ordigni sganciati sui villaggi, a dilaniare corpi e ferire a morte, recano un inequivocabile marchio: la matrice è tutta italiana.

Sono bombe made in Italy e si chiamano MK81, MK82, MK83, MK84, bombe d’aereo di penetrazione BLU 109, BLU 130, BLU 133, Paveway IV.

Poi ci sono quelle cosiddette “intelligenti” anti-sommergibile e testate per missili Cruise.

«A quel punto il silenzio omertoso sulla fabbrica, cresciuta come un fungo velenoso, non è più possibile».

Qualcuno comincia a fotografare i carichi di bombe che di notte arrivano all’aeroporto di Cagliari-Elmas e da lì vengono imbarcati per l’Arabia Saudita.

A denunciare ci sono osservatori attenti, come la Rete Italiana per il disarmo e tanti pacifisti.

Non è semplice però prendere una posizione contro la RWM perché di mezzo c’è il lavoro di tanta gente: almeno un centinaio di operai, cittadini sardi, padri di famiglia che altrimenti non avrebbero di che vivere.

«La questione è delicata: tra i nostri alunni ci sono i figli degli operai della fabbrica. Noi non abbiamo voluto dei contatti con i vertici dell’azienda ma con i lavoratori sì», spiega ancora Guaita.

«In un primo momento abbiamo avuto delle confidenze da parte di alcuni operai: fanno fatica ad affrontare la contraddizione morale in cui si trovano. Alcuni genitori non possono dire ai figli che lavorano lì, ad esempio, altri vivono un dramma e si fanno sostenere a livello psicologico. Quando le cose sono andate avanti è diventato più impegnativo parlarne».

Massimo Pallottino ricercatore di Caritas Italiana, che segue da vicino la questione, spiega che «va declinata nel senso della coerenza delle politiche: va bene lo sviluppo economico e i posti di lavoro per la crescita, ma solo all’interno di una coerenza tra sviluppo sostenibile e impiego.

In questo caso non possiamo ignorare che lo sviluppo avvenga a discapito della pace: lì dentro si producono bombe, quelle che hanno fatto migliaia di morti in Yemen».

L’idea ora è quella di sensibilizzare i lavoratori dall’interno, affinché arrivino loro stessi a rifiutare quel tipo di prodotto e pretendere che la fabbrica sia riconvertita in altro.

«Siamo in contatto stretto anche con Franca Faita che aveva lavorato alla Valsella, la fabbrica di mine antiuomo – conferma ancora Guaita – e lei aveva contribuito enormemente all’approvazione della legge contro le mine.

Dice che la rivoluzione deve avvenire dentro la fabbrica, e la fanno gli operai stessi. La svolta alla Valsella avvenne quando cinque operaie iniziarono a votare contro».

Alla RWM cambieranno le cose non appena il fronte dei lavoratori si romperà.

«Alla Aermacchi abbiamo praticato azioni di lotta pubbliche non convenzionali – dice Elio Pagani, raccontando la propria lotta – scioperi della fame contro il traffico di armi e gli euromissili, obiezione alle spese militari, fino ad arrivare nel marzo 1988, attraverso un’intervista a Famiglia Cristiana, ad una denuncia dei rapporti col Sudafrica razzista in violazione degli embarghi ONU».

Ma chi segue l’evoluzione sa che gli operai della RWM di Iglesiasi oggi sono sotto scacco: il loro silenzio in cambio del salario a fine mese. Hanno paura e forse i loro sindacati sono meno coraggiosi di quelli di un tempo.

«Il lavoro di progettazione, di produzione, di vendita e anche di supporto logistico delle armi, e in particolare delle bombe d’aereo prodotte in Sardegna e vendute proprio ai sauditi, non è un lavoro libero – ha scritto il Comitato in un comunicato durante la settimane sociali di Cagliari -.

Non è per niente creativo, lontano da chi ne intasca i profitti ed indifferente verso chi ne subisce gli effetti».

Ma dal punto di vista formale la fabbrica agisce legalmente: «Chi sta facendo l’illegalità è il nostro governo – denunciano i portavoce del Comitato – Con la legge 185 del 1990, infatti, alla quale si è pervenuti con grande fatica, si afferma che non è possibile vendere armi ai Paesi in guerra.

Ma di fatto è una legge inapplicata. La vendita delle armi all’Arabia Saudita viene autorizzata dal governo e la si fa passare come necessità della Difesa».

La Rheinmetall Defence, tedesca, fa in un territorio affamato di lavoro quello che non può fare in Germania perché l’opinione pubblica tedesca è più attenta. Infatti la Rwm è italiana ma l’azionariato è al 100% della Rheinmetall.

Il Parlamento europeo ha votato tre risoluzioni che parlano di embargo verso l’Arabia Saudita. Ma quando la palla è passata ai parlamenti nazionali, lì si è fermata. In quello italiano ha trovato il grande tappo. «È stato chiesto ai deputati di applicare la legge 185», dice Cinzia. Ma la risposta è stata picche.

La possibilità di aderire al Comitato rimane aperta a quanti condividono i principi ispiratori e il suo regolamento: il passo successivo, oltre alla battaglia numero uno per la riconversione, sarà quello di impedire che la fabbrica possa espandersi, cosa che già la casa madre ha iniziato a valutare.